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03.q – the populi
Dalla copertina del libro, sotto il titolo, proprio sopra una pistola sfocata (mentre in primo piano tre rossetti rossi attirano lo sguardo) si legge: Un omicidio in redazione, un amore innocente e vietato.
‘Due colonne taglio basso’ ha indubbiamente un intreccio principale dai contorni gialli. C’è un morto, evidentemente. Ci sono voci, sussurri, ipotesi. Giornalisti che si danno ‘battaglia’, altri che si coalizzano con il magistrato, altri ancora che seguono percorsi alternativi a caccia dell’occasione per emergere, per diventare o essere ciò che da sempre volevano.
Federica Sgaggio narra di un mondo squalo, dove gli incastri sono millimetrici, fragili e in continua evoluzione. Dove i giochi di potere sono fitti, densi. Dove i fatti sono mestiere e il mestiere spesso dimentica sia i fatti che il fattore umano. Dove ci si deve corazzare per sopravvivere, ed è necessario voltarsi a ogni passo. Il giornalismo nelle sue punte più basse, verrebbe da commentare, sebbene non credo sia una questione di graduatorie.
La storia insomma è popolata da numerosi personaggi, che prendono forma nel corso dei capitoli, acquisiscono spessori e ferite. Indubbiamente la ricerca del colpevole, del movente, sono motori propulsivi necessari agli snodi, ai dialoghi concitati e pressanti.
Eppure.
C’è qualcosa, leggendo, che dal basso emerge. Un amore innocente e vietato, recita la copertina.
Lì si cela un nodo pulsante, pregno di molto altro.
Scavando ancora le priorità ruotano: questo romanzo non è un giallo né appartiene a generi affini. Mai completamente, mai in pieno.
Questo romanzo scava negli animi. Lo fa con calma. Sussurrando. Inserendo dettagli nelle scene, con brevi sequenze che interrompono corse e affanni. Lo fa delicatamente ma senza fronzoli. Lo fa entrando nella natura umana di personaggi complessi, feriti, affamati d’affezioni che respingono. Sono personaggi che si nascondono, che si costruiscono mondi entro cui essere rintanando buchi e mancanze dove possibile.
‘Due colonne taglio basso’ cerca un colpevole. Che però non è l’assassino.
È quell’insieme mutevole, variegato, deformante, scheggiato di corpi che essendo ciò che sono lasciano briciole dell’animo umano. Briciole mischiate ad altro, briciole dure, pesanti, faticose.
Ma c’è entro la narrazione comunque spietata, una grande umanità nell’insinuarsi tra vite. Come c’è un’intensa, sapiente e profonda carnalità.
I corpi narrati da Federica Sgaggio non sono ‘prime donne’. Non cercano la ribalta. Cedono facilmente il passo a pensieri, discorsi, spiegazioni, inquadrature allargate. Ma quando diventano dettaglio, quando anche solo una parte occupa l’inquadratura, spiazzano con la potenza dell’onestà.
Si alzò, allargò le braccia, inclinò la testa, gli disse «vieni qui» e lui andò. Se lo tenne stretto. Dovette farlo. Sulla sua spalla sentiva allargarsi una piccola pozza di lacrime silenziose: non poteva staccarsi e smascherare quel pianto. O forse sì? Ignorando quel dolore non stava facendo come la madre di Fabrizio? No, non mi stacco. C’è tempo, si disse. […] Ci conosciamo da tanto, e io riesco a vederlo solo adesso che la sua faccia è nascosta tra i miei capelli.
(pag. 72)
Ma la mia pancia continuò a temere che lei avesse ragione.
(pag.83)
Mentre le lame lavoravano sulla sua barba come se la mano non ne fosse responsabile, un filo dell’angosciante trama notturna si era annodato con un altro capo, con un terzo e con un altro ancora.
(pag.203)
Fabrizio si rese conto che, sebbene con estrema lentezza, il mondo tornava a prender la sua forma. Non era un bel mondo, questo no. Ma ritornava a esistere. Era primavera, sarebbe arrivata l’estate.
(pag.247)
C’è poi, una sottile patina da afferrare e superare, una vetta da raggiungere quando corpi, gesti, e dettagli, esprimono quel livello sotterraneo che scorre tra i personaggi, che rafforza sensi e profondità. Quando ad esempio i tocchi sono necessari per afferrare un’identità mai considerata, per dare una precisa carne a ruoli nuovi, che distruggono certezze e violano affettività intense. Oppure quando un contatto fisico diventa necessità di ‘verità’, di ritrovare un qualcosa che c’è, esiste, ed è appiglio saldo contro i terremoti interiori.
Si alzò e la afferrò il polso con un gesto lento e faticoso. Aveva bisogno di sentirsi in contato fisico con una persona vera. […] Mi devo ancorare a questo polso, pensò, sennò finisce che volo per aria come un palloncino dalle mani di un bambino.
(pag.254)
Questi corpi, in fondo, lasciano un preciso bagaglio al lettore: ciò che le parole e i gesti tentano di camuffare, loro tradiscono, spogliano. I corpi parlano, e Federica Sgaggio lascia che siano linguaggi diretti, immediati.
Chiara prese fiato solo un istante, smettendo di gesticolare. Solo allora si accorse che quel fiume di parole era stato ininterrottamente accompagnato da rapidi e ampi movimenti delle mani. […] Fabrizio le toccò una mano, e tanto bastò a placarla.
(pag.298)
Ci sono occhi, braccia, mani, sguardi, piedi, pelle. C’è carne senza infrastrutture, scorci svelati come attraverso il piccolo spazio di una serratura, mentre la porta chiusa è separazione e riparo.
Gli ultimi capitoli sono inequivocabilmente quelli dove la risoluzione del dilemma, l’interruzione della dinamiche di genere, lascia ampio spazio ai sentire, alle espressioni carnali di intenti, manifestazioni, necessità, desideri e dilemmi.
Non svelerò nulla della trama. Non mi soffermerò sui personaggi principali, sui legami. Lascio solo un suggerimento: non chiedetevi continuamente ‘Chi?’ ‘Come?’ ‘Perché?’.
Ci saranno queste risposte. Ma rincorrendole, non perdetevene altre, di risposte che possono anche diventare nuove domande per tutti, lettori compresi.
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