la boutique
Ho preso tempo. Sono entrata prima in un negozio di cose etniche. «Adesso ho a che fare con l’Africa», mi sono detta. «Ha un senso che io entri».
I titoli di legittimazione che pretendo da me stessa sono sempre stupefacenti.
Ho curiosato, mi sono guardata attorno velocemente. Sono rimasta solo pochi minuti.
Era la porta accanto quella che mi interessava.
L’ultima volta che c’ero stata avevamo comperato un jeans grigio scuro elasticizzato, una maglietta Marimekko a manica lunga a righe grigio chiaro e grigio-blu, e un cardigan di cachemire grigio chiaro e grigio scuro.
Lei non voleva, diceva che la maglia costava troppo.
Ho insisito. Ho fatto bene.
Avrei voluto tenerlo io, adesso. Ma sta meglio addosso a lei, perfino là.
«Buonasera», ho detto varcando la porta. «Do un’occhiata».
«Prego», mi ha risposto la commessa.
Prima di arrivare al camerino dove mia madre aveva provato quegli abiti con cui io sapevo che l’avrei sepolta, ho passato le mani sui vestiti appesi, sui giacconi.
E poi mi sono avvicinata.
La tenda scura, il tappeto, lo sgabello. Uguale da anni.
Negli specchi sui tre lati vedevo mia madre.
Piccola, storta, in faticoso equilibrio, intenta a chiedere scusa per il fatto di esistere.
La prima volta che ho guardato me stessa in quei vetri avevo tre o quattro anni.
È arrivata la figlia della proprietaria.
Mi ha vista, mi ha riconosciuta. Mi ha chiesto come andava.
«Va abbastanza bene», le ho detto. «L’ultima volta che sono stata qui ero con mia madre. Lo sapevo che sarebbe stata l’ultima, anche se stava bene, non aveva nessuna malattia: solo la depressione».
Lei non ha tirato fuori la voce. Ha mosso un pochino la mascella.
Poi ho visto il labiale, senza suono.
Le labbra si sono unite, poi hanno formato un circolino, poi la lingua s’è spostata sul palato, e infine le labbra si sono riaperte.
M-o-rt-a.
Il punto interrogativo si vedeva negli occhi.
«Sì», le ho detto.
«Quando?».
«L’anno scorso, agosto».
«Non si scusi per gli occhi lucidi», mi ha detto. «Io sono peggio di lei. Sono terrorizzata per la mia».
«Anch’io. Ho passato anni di terrore».
«Sua madre aveva garbo», mi ha detto. «Un gran gusto, una gentilezza… Ma anche lei… Io non mi sbaglio sulle persone. Aveva personalità e grazia».
«Ha ragione, su di lei», le ho risposto. «Non c’è giorno che non la ringrazi per la sua eredità. Dica a sua madre che la saluto. Se non si ricorda chi sono le dica che sono la figlia della signora di cui lei diceva sempre “ah, a lei piacciono le cose pulite: niente collane, niente accessori, niente sciarpe”».
Alle sue commesse diceva sempre di lasciarla stare, di non proporle accessori.
L’anno prossimo ricorre il sessantesimo della boutique.
La figlia della signora mi ha chiesto il numero di telefono.
Ho pianto fino a casa.
Ho cercato di telefonare a mia zia Bianca, ma aveva il cellulare staccato.
Avevo bisogno di dirlo.
Lo dico qui. Chi vuole lo legge.
Ciao, mamma. Hai lasciato un buon ricordo anche da Novella, lo sai?
Federica Sgaggio,
sei brutta. Tanto brutta.
Certa gente è strana assai, eh.