memories
L’11 gennaio 1999 stavo facendo una sostituzione agli Esteri del Gazzettino, alla sede centrale di Mestre.
Nel cuore avevo una gioia forte e segreta: da tre giorni sapevo di essere incinta.
Al lavoro non l’avevo ancora detto a nessuno.
Lo sapevano solo i futuri nonni, le mie zie materne e una ragazza che all’epoca era una mia grande amica. A separarci ha pensato il tempo, direi così.
Il crocettato dell’Ansa con cui si annunciava la morte di Fabrizio De André lampeggiò, giallo, nell’angolo in basso a destra in cui si avvicendavano velocissime le ultim’ora.
Fabrizio. Lui. Il cantautore che aveva inventato le canzoni apposta per mia madre, pensando proprio a lei; che l’aveva tirata fuori dal desiderio di morire; che a ogni concerto le faceva venire la febbre a quaranta per l’emozione.
«Non voglio veramente conoscerlo», aveva detto a un’amica che me l’ha riferito poche settimane fa. «Come faccio se non è all’altezza delle sue canzoni? Ho troppa paura della delusione».
La notizia della sua morte mi aveva pietrificata.
Ho preso il telefonino – avevo un «banana» Nokia, l’8110 – ho fatto il numero di mia madre.
Non sapevo come dirglielo.
De André l’aveva salvata dalla disperazione, dopo che aveva saputo della disabilità di mio fratello.
«Mamma».
«Wé, cor e’ ma’, che è? Cum sta a panzéll?».
«Tutto bene. Devo dirti una cosa».
«Di’».
«È morto Fabrizio De Andrè».
«Umarònn. E ccum è mmuort?».
«Non lo so. È appena arrivata la notizia».
«Umarònn».
Da quel giorno in poi, nessuna delle due ha mai potuto ascoltare le canzoni di Fabrizio senza piangere.
Spero che si siano conosciuti.
Spero che non l’abbia delusa.
Ieri notte l’ho sognata. Stava bene, era vestita di chiaro, tutta tirata a lucido, molto bella.
«Ma che ci fai qua?», le ho chiesto. «Non sapete già tutto, da quell’altra parte?».
«Mmmh», ha risposto. «Non proprio. Per questo ho chiesto il permesso di tornare una volta ogni tanto a vedere come va. Mi hanno detto di sì».
È la seconda volta che in sogno che mette in ordine casa mia.
Lo sapevo, che tornava.
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