cartesio e i disabili
Nelle Meditazioni metafisiche, Cartesio dice che la sua esistenza è indubitabilmente provata dal fatto che egli pensa.
Subito dopo, va in cerca di quale sia l’attributo più inestricabilmente connesso al fatto che egli esiste; di quale sia, insomma, la sua «sostanza».
E scrive:
Passiamo, dunque, agli attributi dell’anima.
[…]
Un altro è il pensare; ed io trovo qui che il pensiero è attributo che m’appartiene: esso solo non può essere distaccato da me.
A parte la questione della sottovalutazione della sensazione, del sentire, come accidente che può derivare dalla fallacia dei sensi – che per quanto fallaci, a me sembra, nessuno potrà mai definire inesistenti – mi stavo domandando questo: ma i filosofi, tutti i filosofi, come hanno risposto al problema della disabilità?
Cosa hanno risposto, i filosofi, di fronte al problema della dis-percezione, dell’im-percezione, del non-pensiero, della non autoconsapevolezza?
Non che sia decisivo, per carità.
Ma perché ci si interroga spesso sul dominio di un pensiero e di un’idea di mondo maschile [e con la pessima (ma comprensibile) ragione che il potere immenso di una donna, dare la vita, andava schiacciato] e quasi mai si ragiona sull’evidenza del fatto che l’esistenza della disabilità (e della vecchiaia, anche? Non so: ci dovrei pensare meglio) è stata semplicemente obliterata dalla storia dell’umanità, e senza alcuna «buona» ragione?
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