il filo di indiana jones
Ma veramente «non è mai troppo tardi», come nella trasmissione del maestro Manzi?
L’anno passato si è portato via, lontano, un’idea su cui ho sempre fondato la mia vita: che se mi impegno, se mi ci metto, se mi ci spendo, be’, allora io posso.
Non ho mai creduto che avrei potuto ribaltare il mondo.
Però pensavo che sulle cose mie avevo facoltà di intervento. Non si è padroni della propria vita fino in fondo, questo lo so. Lo so così bene da essere stata la regina dell’ipocondria.
Sono stata a lungo una delle fonti di reddito più continuative per un bel numero di medici specialisti della mia zona, e uno dei rebus più curiosi dell’Agenzia delle Entrate, che più volte mi ha chiamato a render conto e ragione delle mie spese sanitarie.
Ma i cambiamenti non mi hanno mai fatto paura.
Ho cercato di diventare una giornalista con accanimento e con fiducia. Non ho nemmeno voluto passare per il tesserino da pubblicista. La sfida era passare direttamente al praticantato e di lì all’esame di Stato da professionista.
Ho lavorato in moltissimi quotidiani, e ogni volta mi piaceva la possibilità di ricominciare, di vedere me stessa in un altro modo, alle prese con altre sfide, altre persone, altri contesti.
Sono andata ad abitare da sola con il peso di lasciare mia madre da sola con mio fratello, ma con la certezza (condivisa da mia madre) che prendere distanza era l’unico modo che avevo per vivere.
Mi sono sposata con gioia e convinzione, dopo una lunga convivenza, per il bisogno di rendere pubblico onore all’uomo che avevo scelto.
Ho voluto mio figlio con allegria, e sono stata una donna incinta felice e in armonia col mondo.
Ho cercato per molti anni di avere un altro figlio, e ogni volta ci ho creduto fino in fondo.
Ogni volta ci ho speso entusiasmo, fantasie, anticipazioni di felicità.
Ho lasciato il lavoro con fiducia.
Niente secondo figlio, invece. Non finora, e al mondo chissà.
Niente prospettive sensate di prosecuzione di un lavoro che avevo scelto con passione, avevo svolto con ostinato attivismo.
I primi «è troppo tardi» li ho sentiti per queste due cose, come un crac.
C’è stato un giorno in cui per nessun motivo speciale, per nessun cambiamento identificabile, per nessuna ragione cogente, per nessun ostacolo quantitativo, per nessun impedimento materiale, così, semplicemente, io ho sentito dentro di me che la fibra della fiducia si era sfilacciata come quelle dei ponti di corda dei film di Indiana Jones.
Me ne restava un filo.
Era un filo ritorto e teso. Da una parte lo tenevo io, dall’altra lo tiravano mia madre e il suo lento abbandono del mondo, mio figlio con la sua irragionevole ferocia adolescenziale, e le circostanze avverse più varie, prima fra tutte la congiuntura economica sfavorevole, per dir così.
Poi è morta mia madre.
In un momento, quel filo è tornato corda e io son tornata ponte.
Avevo tutta la mia forza. Avevo tutta me, intera; non dovevo più dividermi con nessuno.
E poi, a mano a mano, è prevalsa una stanchezza nuova.
Tutti i doni che il lutto ha portato hanno bisogno di tempo e di lentezza.
E io ho cominciato a sentire che è troppo tardi, che è troppo tardi per tutto: per sognare, per progettare, per credere, per provare, per avere fiducia.
Tutto questo riguarda la mia esistenza individuale, ma trova una risonanza in quello che c’è intorno a me: un Paese in cui le persone della mia età – se coi loro lauti stipendi e le loro rosee prospettive pensionistiche non sono neanche state capaci di rubare il futuro a qualche trentenne del cazzo – sono considerate residuali.
Residui di individui troppo vecchi per essere giovani e troppo giovani per essere vecchi.
Vorrei che il 2017 mi ficcasse bene in testa che non è troppo tardi.
Ma oggi, a circa ventinove ore dalla fine di un anno difficile, il mio cuore mi dice che è tardi per tutto, anche per avere fiducia.
Mi resta, forse, la speranza.
Ma che fatica, e che paura di sperare – ancora – per niente.
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