vecchie domeniche mattina
Mio padre ha sempre raccontato molto poco della sua storia, e anche le sue sorelle.
Sono orfana di lui da quando avevo diciott’anni e orfana da sempre della sua vicenda di bambino, di ragazzo, di uomo, marito e padre.
A casa cantava canzoni popolari, canti di militari, bersaglieri, alpini. Non sopportava gli arrangiamenti da orchestrina del liscio con cui nel tempo avevano tentato di modernizzarli.
Gli piacevano i cori in se stessi: l’intreccio, l’armonia, il rincorrersi e l’arrotolarsi ordinato delle voci l’una sull’altra. Gli piaceva che quei canti rimanessero cose demodé, sorpassate, inattuali.
Ha sempre voluto dare di sé un’immagine da adulto. Amava indossare un’aria da anziano, una postura da saggio, da uomo che aveva già dato e adesso basta: la usava per nascondere e compensare la sua radicale indomabilità.
In pubblico, poi, era amabile e gioviale come pochi altri.
Dalla nascita di mio fratello in poi, non ha mai giocato a fare lo scapestrato, se non al volante: il suo slalom fra le colonne dei portici della piazza con la sua Dauphin, che la storia familiare ha tramandato come «la dufìn», ad Arzignano è ancora leggenda. Ma all’epoca non aveva ancora trent’anni.
In primavera, quando cominciava a fare un po’ caldo, il sabato e la domenica mattina stava in casa in pantaloncini e canottiera, magari schiumando il brodo o preparando le verdure per il minestrone, e cantava. Lo sentivo dal mio lettino e pensavo che la nostra vita normale era nascosta da qualche parte e che prima o poi l’avremmo trovata.
Pensavo che se cercavano di mettere in sintonia le loro voci per una canzone, allora mia madre e mio padre si amavano.
Nel tempo ho sviluppato un imbattibile sesto senso per le illusioni. Ora le riconosco subito. Distinguo immediatamente fra progetti e piani morti, fra cose vere e stronzate.
Ci sono poche cose che mi procurano un senso di panico e di sofferenza fisica come l’evidenza del fatto che qualcuno sta ingannando se stesso e minimizzando le difficoltà.
«E la bandié-era dei tre coló-ori è sempre stata la più bella, noi vogliamo sempre quella, noi vogliam la libertà», «Il Piave mormorò», «La mula de Parenzo», «La domenica andando alla messa», «Quel mazzolin di fiori», «Ti saluto, vado in Abissinia», «Addio mia bella addio», «Dammi o bello il tuo fazzolettino», «E le stellette che noi portiamo».
Qui, di solito mia madre entrava quando bisognava cantare «cara biondina capricciosa garibaldina trullallà, tu sei la stella tu sei la stella, cara biondina capricciosa garibaldina trullallà, tu sei la stella di noi solda’», e mio padre – come a un segnale convenuto – intonava immediatamente la seconda voce.
Cantava con lui perfino i canti fascisti. Perfino «Giovinezza» e «Faccetta nera». Lei. Lei che da ragazzina introduceva al suo paese i comizi di Fanfani. Lei, antifascista per convinzione, per necessità. Furiosamente antifascista.
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