lost between
Mi capita spesso di leggere in giro che i bambini danno il senso vero della vita; che basta guardarli dormire e capisci che senso ha la tua esistenza.
In genere, a scrivere sono genitori recenti, a cui si dischiude un mondo del quale sembravano non solo inconsapevoli ma perfino incapaci di attingere per via di immaginazione.
È come un colpo di fulmine, appena più lento, e temperato (o forse addirittura esaltato nella sua epica dimensione eroico-sacrificale) dalle notti in bianco.
Adesso che io ho un figlio abbastanza grande, che di anni ne ha a sufficienza per decidere di essere in quanto antagonista, ribelle, opposto, mi rendo conto che a lui sta succedendo quello che succede ai genitori che hanno avuto un figlio da poco: pensare che quello di cui essi stanno in quel momento facendo esperienza sia un unicum di centralità universale, che azzera il passato e riduce il futuro a una dimensione di eterno presente.
La seconda questione – quella del futuro – mi sembra molto interessante, perché è fonte di effimeri grandi piaceri e, vista dall’altro estremo, di durature delusioni.
Il lento e progressivo deterioramento della vitalità di mia madre, l’acuirsi del suo isolamento esistenziale e poi la sua morte mi hanno dato molta chiarezza rispetto al fatto che ogni volta che ci si culla nell’illusione dell’eternità del presente si commette un errore di prospettiva, forse necessario alla nostra vita come parecchi degli errori che facciamo.
Credevo – e così è sembrato chiaro fino a un certo punto – che a questa comprensione del cambiamento (e dell’irreversibilità di alcune cose) come vera dimensione della vita avesse partecipato anche mio figlio, maturando consapevolezze che lo interpellavano sul senso che per lui ha – nel qui e ora – la vita che sta vivendo lui, quella di uno studente con un’intelligenza vivace, una vorace voglia di vivere, un’ovvia incapacità di distinguere fra responsabilità e colpa, e una benedetta e maledetta propensione al credersi onnipotente.
Bene.
No, non è così.
Il processo è molto più lento, e mette a prova la pazienza degli osservatori che amano, spesso ridotti a un’impotenza che – come sempre! – riempie di gioia chi quell’impotenza produce.
Le madri e i padri di figli in fuga ribelle si trovano come quelli a cui un lembo del cappotto sia rimasto chiuso nella portiera di un’automobile che corre e smarmitta: corrono scompostamente per tener dietro alla macchina di cui non sanno prevedere l’itinerario, spaventati dalla possibilità che un’accelerata improvvisa strappi il cappotto che è l’unico legame che ancora li tiene uniti al guidatore.
Per parte mia, non credo di essere mai stata incline a considerare che il senso della vita lo misuravo grazie a mio figlio, riguardandomi in lui.
Mi piaceva, mi è sempre piaciuto, ma ci sono stati momenti in cui, quando aveva intorno ai quattro mesi, mi sembrava che somigliasse al presentatore Magalli.
I suoi difetti mi sono sempre risultati piuttosto chiari, così come i suoi moltissimi pregi, primo fra tutti quello di saper dare un nome ai sentimenti e alle emozioni.
Non ricordo, per dire, di averlo mai aiutato a fare i compiti, nemmeno in prima elementare. Le madri dei compagni mi chiamavano per chiedere se sapessi cosa c’era da fare per l’indomani e puntualmente io non lo sapevo.
Assistere alla crescita di mio figlio – questo sì – è stato un processo emozionante e pieno di cose fiorite.
Sapere che – anche ora che sulla carta d’identità dovrebbe scrivere «professione: adolescente» – lui è anche quello che è stato fino a oggi mi dà motivi di gioia e di fiducia.
Ma ora che io non sono più una ragazza e nemmeno una giovane donna, avverto che tutto questo è enormemente faticoso.
Non credo di certo che il mio messaggio abbia un valore generale. Però, ecco: pensateci adesso, voi che siete diventati genitori da poco. Pensate adesso al fatto che se affidate a un figlio il compito di darvi il senso e la misura della vostra vita potreste finire per schiantarvi su un muro andando a cento all’ora.
Poi, boh. Potrebbe capitarvi un figlio che non «adolesce».
Oppure uno dei tanti figli di cui leggo le gesta leggendarie, per dire, su Facebook.
Noi genitori che abbiamo un lembo del cappotto chiuso nella portiera dell’auto guidata dai nostri figli adolescenti – e dobbiamo correre e basta, parlando fra noi solo di quella corsa che ci assorbe quasi tutte le energie, e parlarne solo ai semafori, senza che la nostra vita di singoli individui possa occuparsi d’altro che delle nostre emergenze – abbiamo socialmente solo due modelli di specchietti in cui provare a guardare noi stessi.
Da una parte, i padri e le madri dei bambini dell’eterno presente, quelli nei cui piedini cicciotti risiede il senso dell’umanità.
Dall’altra, i giovinotti che – un po’ cessi ma anche un po’ no – sono l’epitome del nerd mediamente indipendente che la sa lunga e dà soddisfazione; gente piuttosto brufolosa che consente finalmente a mamma e papà un atterraggio morbido al di fuori del faticoso territorio della genitorialità.
Sarà che sono provata e stanca, ma io mi sento proprio in salita.
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