displacement, intimacy, and detachment
Ho sempre pensato che quelli che si trovano bene dappertutto siano persone da cui guardarsi.
Da un po’ di tempo, ho cominciato a pensare che sono persone da cui guardarsi anche quelle che sentono di essere nello slot giusto e non hanno mai il minimo disagio sulla loro collocazione, indipendentemente dagli spostamenti che fanno.
Ci sono momenti in cui leggere Facebook – la sequenza degli status di chi sta bene, benissimo, benone, di chi loda il creato e le sue infinite minuscole azzurrità sentimentali, di chi commenta compiaciuto le vicende di altri insider, di chi piacizza strategicamente, come per fare una pisciatina sul territorio – mi mette un senso di fastidio interiore molto profondo.
Ci sono momenti in cui mi rendo conto che il mondo è di chi crede di esserne il padrone, o perché il suo passato gliel’ha regalato, o perché il suo presente glielo consente.
A volte, a un occhio allenato a guardare le cose sono molto evidenti.
Si vede molto bene, per dire, se due persone che stanno vicine hanno vissuto o vivono un’intimità speciale. Si vede perché non stanno minimamente in guardia sul rispetto dell’aura socialmente inattingibile che sta intorno ai loro corpi, per esempio; anche se non si guardano in faccia.
Anche su Fb si vede chi sta con chi (ricordo un’occasione leggendaria in cui mi resi conto per questa via che due persone che conoscevo si erano – come dire? – messe insieme), e perché, e se c’è intimità, e se c’è sincerità o interesse.
Io questo vedere in controluce non lo reggo più, perché mi fa male.
(Obiettivo me).
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