monsignor snoq
A proposito di maternità surrogata, ciò che mi fa più impressione è questo: che ci sia qualcuno – donne, intellettuali, donne che si definiscono femministe – che possa dire che
il nodo è quello della differenza tra desiderio e diritto.
proprio come un oscurantista qualunque.
In sostanza, dicono coloro che il titolo di Repubblica online definisce «femministe», una donna può desiderare di diventare madre, ma non ha il diritto di diventare madre.
Al di là di come la si pensi sullo specifico punto, a me sembra inaudito che donne che si definiscono femministe si permettano di passare al setaccio le motivazioni di altre donne, decidendo – loro, e non la donna che nella situazione si trova – che ciò che è «desiderio» non può essere «diritto».
È lo stesso moralismo che le (stesse) donne di Se non ora quando infilarono nel loro manifesto, quello che delineava la legittimità «morale» di un unico genere di universo femminile: quello di una femminilità sacrale e sacrificale, quello incarnato da donne che combattono, si sacrificano, lavorano, contribuiscono «alla ricchezza della nazione», la cui dignità viene compromessa
dalla ripetuta, indecente, ostentata rappresentazione delle donne come nudo oggetto di scambio sessuale, offerta da giornali, televisioni, pubblicità,
che sta
inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione.
Una iattura di tali proporzioni che – scrivevano –
senza quasi rendercene conto, abbiamo superato la soglia della decenza.
Queste parole implicano il non detto che le donne che si rendono oggetto di scambio sessuale non siano donne che combattono, che si sacrificano, che lavorano, che contribuiscono «alla ricchezza della nazione».
Le donne di questo tipo, insomma, sono donne di serie b al cospetto di quelle fra noi che
sono impegnate nella vita pubblica, in tutti i partiti, nei sindacati, nelle imprese, nelle associazioni e nel volontariato allo scopo di rendere più civile, più ricca e accogliente la società in cui vivono. Hanno considerazione e rispetto di sé, della libertà e della dignità femminile ottenute con il contributo di tante generazioni di donne.
Insomma: noi siamo/possiamo, loro no.
Noi siamo le colonne, loro le stronze.
Se scelgono il tipo di vita che fanno, o non capiscono quello che fanno e dunque sono sceme, o non sono manco degne di essere annoverate fra le donne di serie a come noi.
L’unica condizione rispettata la quale perfino loro possono essere ammesse all’olimpo di noi donne sacrificali è che la loro sia la situazione di una vittima; vittima di qualcuno che le costringe. Un cattivo, un perfido, un mercante, un mascalzone, un delinquente.
Il solito mondo semplificato, insomma. Noi buone, voi cattive.
Anche qui, sull’«utero in affitto», al grido di
quel bambino non è un oggetto, quella donna non è solo un corpo, perché il nostro corpo siamo noi
(questo lo dice Fabrizia Giuliani), il mondo torna a muoversi secondo le solite coordinate semplificate.
Tu, donna, vorresti un figlio.
Eh, prima vediamo se hai il diritto di averlo. In altri termini: vediamo se hai il diritto di desiderarlo. No, ci abbiamo pensato: non ce l’hai. Non è che possiamo soddisfare tutti i desideri. Io, per esempio, vorrei andare sulla Luna ma non posso; che ci vuoi fare, cara amica: non puoi.
Come dici? C’è una donna che, liberamente, ha accettato di mettere a disposizione il suo corpo per portare avanti la gravidanza al posto tuo?
Eh no, cara.
Pensa a un’adozione, piuttosto. Il mondo è pieno di bambini che cercano una famiglia!
Il tempo di gestazione non è un tempo meccanico, quel bambino non è un oggetto, quella donna non è solo un corpo.
E poi, come dice la regista Cristina Comencini,
una madre non è un forno. Abbiamo sempre detto che il rapporto tra il bambino e la mamma è una relazione che si crea. Concepire che il diritto di avere un figlio possa portarti all’uso del corpo di donne che spesso non hanno i mezzi, che per questo vendono i loro bambini, riconduce la donna e la maternità a un rapporto non culturale, non profondo
Proviamo a capire cosa significano queste parole.
Innanzitutto, significano che se io decido per motivi miei di accettare che il mio corpo ospiti il figlio di un’altra donna io non ho deciso liberamente di fare una cosa che accetto di fare. No. Io considero me stessa un forno.
Corollario: stronza io che tratto me come un forno, stronza la donna per conto della quale io tratto il mio corpo come un forno.
Conclusione: chiunque pensi, anche liberamente e senza nessuna costrizione economica, di voler fare del proprio corpo un luogo nel quale prenderà forma un bambino che sarà allevato da un’altra donna (stronza, perché pensa che il corpo di un’altra donna è un forno) è anch’essa una stronza.
La Comencini ha la grazia di dire che «spesso» – e non «sempre» – le donne che si mettono a disposizione per una maternità surrogata «vendono i loro bambini» perché «non hanno i mezzi».
Ma invece di realizzare che «spesso» non è «sempre», la Comencini e i firmatari dell’appello che chiede alla Ue di mettere al bando la maternità surrogata decidono che per colpa di quello «spesso», allora loro vogliono un «mai», anche quando la scelta dovesse essere altruistica e consapevole.
Impedire a una donna per motivi morali – la differenza fra il «desiderio» e il «diritto» – di scegliere liberamente se aiutare un’amica, una parente o un’estranea – pagandone i prezzi emotivi, sentimentali e fisici, che nessuno potrebbe mai ipotizzare piccoli – significa non tanto negare a quella donna la facoltà di disporre di se stessa come di un forno, quanto, io credo, negare a quella donna la sua facoltà di autodeterminarsi.
E tutto questo si pretende di farlo da sinistra.
Invece di pensare alla necessità di regolamentare, si pensa al rimedio di proibire.
Perché una donna non può decidere quello che ad altre donne che si definiscono femministe non piace.
A me questo sembra molto simile a quello che fanno i vescovi e i preti. Anzi: mi sembra proprio uguale, identico.
So che la posizione di Snoq è condivisa da molti gruppi femministi anche a livello internazionale, ma questo mi sembra solo che renda più grave la questione.
È un po’ come la risposta agli attentati di Parigi: togliamo i diritti – o la libertà, a seconda se si guardino le cose da un lato oppure dall’altro – perché c’è chi ne fa cattivo uso; non sarò convinta che questa sia una strategia giusta nemmeno quando dovessero deciderlo tutti i Parlamenti del mondo.
A proposito di “regolamentazione”, anche la schiavitù era “regolamentata”, ma non basta inserire una pratica all’interno di un sistema di regole per renderla legittima.
Va anche detto che è evidente che qualsiasi diritto, per essere considerato tale, prima che dal singolo individuo, deve venire riconosciuto da tutta la società. Normale e giusto che ci sia una dibattito per stabilire ciò che è diritto e ciò che non lo è
Certo.
Il dibattito è sacrosanto.