l’utero del giornalismo
A me questa cosa dell’appello di queste donne (e uomini) che – sotto le insegne di una frangia di Snoq – chiedono alla Ue la messa al bando della maternità surrogata – vedi post precedente – ricorda molto da vicino la battaglia ugualmente moralistica e oscurantista di alcuni cittadini e di alcuni giornalisti contro le immagini di cronaca troppo esplicite e, addirittura, contro ciò che si ha l’indecenza di definire «eccesso» di dettagli nella ricostruzione di un fatto di cronaca.
Non riesco a fare a meno di considerare le due questioni strettamente legate da un filo, che è quello di una chiave di lettura moralistica del mondo.
Le immagini crude fanno male, magari vengono viste dai bambini e i bambini poi si spaventano. I dettagli di un’autopsia non ci interessano, sono particolari in eccesso.
Eppure, a dover assolvere il compito di dare ai bambini un modo per guardare al mondo – ed eventualmente un modo per non guardare la tv e i giornali – sono le persone che di quei bambini si occupano: non i giornalisti.
Da quando in qua un particolare come quelli che emergono dall’autopsia di una persona vittima di un fatto violento sono da considerarsi insignificanti, o espressione di voyeurismo?
Non abbiamo invocato a gran voce, e per decenni, la verità su quelle che ci eravamo abituati a chiamare «stragi di Stato»?
Non era attraverso la conoscenza dei dettagli che alcuni elementi sono stati chiariti?
Chi può arrogarsi il diritto di decidere cosa sia mostrabile e dicibile da coloro che hanno il compito professionale di informare i cittadini, che corrispettivamente hanno il diritto di essere informati?
La regola dovrebbe essere il dovere di mostrare, e le eccezioni pochissime e motivatissime. Motivate giornalisticamente, però. Non moralisticamente.
Quale giornalista può seriamente pensare che, invece di trovare lui il modo giusto per far vedere le cose e per dire le cose – invece di essere il mediatore che dovrebbe essere – la cosa giusta da fare è non mediare, ma nascondere?
Quale cittadino autenticamente interessato alla cosa pubblica può seriamente ritenere sensato essere tenuto all’oscuro di particolari e di immagini relativi a un fatto di cronaca?
«Non aggiunge niente», dicono gli alfieri di questa scuola di pensiero.
Male, dico io. Male se a te sembra che vedere non aggiunga niente. Male se a te sembra che sapere non aggiunga niente.
Un’immagine di cronaca riflette la realtà.
Se la realtà non ci piace non dovremmo avere l’impudenza di chiedere a qualcuno – o a noi stessi – di nasconderla. Dovremmo essere abbastanza seri da riuscire ad assumerci la responsabilità di trovare noi i modi per farla vedere. Quello è il nostro dovere di giornalisti: fare vedere e dire. E sapere tutto è il nostro diritto di cittadini.
Se poi, singolarmente presi, non vogliamo né vedere né sapere, possiamo ben farlo: non guardiamo; non leggiamo; non ascoltiamo.
Assumiamoci la responsabilità di dire noi, in proprio, i nostri no, invece di chiedere al legislatore o a un’autorità qualunque di essere trattati come bambini incapaci.
Allo stesso modo, queste donne e questi uomini che vorrebbero estirpare dalla faccia della terra la pratica della maternità surrogata non sono nemmeno in grado di prendere su di sé la responsabilità (di cittadini, di filosofi, di politici) di premere – eventualmente – per una regolamentazione della materia che garantisca regole certe.
Non conta niente il fatto che non esiste regola che non possa essere trasgredita: se questo è l’argomento, infatti, allora bisognerebbe abolire le leggi e proibire qualunque comportamento astrattamente in grado di eluderle.
Oltre alla questione – come dire? – di non saper fare il proprio mestiere (di cives, mi verrebbe da dire), coloro che premono per la messa al bando della maternità surrogata usano – così come i censori della stampa, giornalisti o cittadini che siano – argomenti strettamente moralistici: le povere donne sfruttate, il bambino che non è un oggetto, la vendita dei corpi, il parto che dopo «indicibili dolori» ti lega al bambino che nasce da te…
Nessuno potrebbe negare l’enormità delle implicazioni di una maternità surrogata, naturalmente.
Tuttavia, argomenti come quelli dei sostenitori della messa al bando sono tutt’altro che femministi, e non solo per il fatto decisivo e fondamentale che negano il diritto all’autodeterminazione della donna e la sua praticabilità.
A me sembra che il risvolto più preoccupante per il nostro futuro di cittadini del mondo – di cittadini di un mondo che sta decidendo di limitare i diritti dei cittadini facendo leva sulla questione della sicurezza – sia nel fatto che queste proibizioni e queste censure si reggano su argomenti moralistici.
Partorire fa male, e questo crea un legame indissolubile: come farai, dopo, a cedere il bambino che hai portato in grembo?
Ecco.
E che facciamo se il parto è stato indolore? Dove le gettiamo le battaglie delle donne per avere il diritto di partorire senza dolore?
Addirittura, ho letto che una femminista di cui mi sono dimenticata il cognome (me ne scuso) ha avuto l’ardire di sostenere che, a proposito di maternità surrogata, questo «commercio di ovociti e spermatozoi» la lascia perplessa come il commercio d’organi.
Che c’entra la fecondazione assistita con la pratica della maternità surrogata? Non è gravissimo che una femminista che prende su di sé l’onere di parlare pubblicamente di una questione tanto delicata non conosca nemmeno la differenza fra una donazione legale di gameti e il commercio degli organi?
Tanti auguri, cari censori che fate finta di essere di sinistra.
Non state solo facendo a pezzi il mio mondo, il nostro mondo – questo sarebbe niente.
State facendo a pezzi il mondo di mio figlio, il mondo dei nostri figli.
Quando verranno a togliere l’aria a voi, ricordatevi di quella volta in cui, facendo finta di essere di sinistra, avete chiesto di toglierla ad altri pensando che fosse una cosa di sinistra.
Siete più pericolosi delle polveri sottili.
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