la badante e l’intellettuale
Voglio raccontare una cosa.
La nuova badante di mia madre – non che ce ne fosse una vecchia, ma insomma – viene dallo Sri Lanka e ha 42 anni.
Quando, alle Acli, è stato il momento di dirle che lei ha – fra le altre cose – il diritto di dormire a casa sua per una notte, la nuova badante di mia madre ha detto «no, io dormire da signora».
La signora delle Acli le ha detto «no, lei deve dormire a casa sua».
La nuova badante di mia madre ha detto «no, io volere dormire da signora»**.
La signora delle Acli le ha chiesto perché.
La nuova badante di mia madre ha detto «perché sennò signora come fa».
La signora delle Acli ha detto «guardi che sono problemi della figlia della signora, non problemi suoi».
La nuova badante di mia madre ha detto «va bene ma io volere dormire da signora».
La signora delle Acli ha detto «se la signora è d’accordo, lei lo può fare, purché sia chiaro che è una scelta sua».
Io ho detto che io voglio rispettare il contratto nazionale di lavoro badanti-colf.
La nuova badante di mia madre ha detto «io lavorare anche di domenica»**.
Io le ho detto «no, tu la domenica stai a casa perché devi stare a casa tua».
La nuova badante di mia madre ha detto «no, io posso lavorare perché dispiace se signora, come fa signora».
Io le ho detto che figlia di signora chiama altra persona.
La nuova badante di mia madre ha detto «no, tu paga me e io resto, invece che altra persona».
Io le ho detto «no, io non pago a te delle ore straordinarie, perché non ho soldi per pagare a te delle ore straordinarie al 160 per cento. Io pago un’altra persona al cento per cento», e mi è venuto in mente di quando, tantissimi anni fa, mentre mia madre era in ospedale e io – che da sola non riuscivo a gestire due invalidi – aspettavo che un istituto accettasse mio fratello, il direttore di quell’istituto replicò alla mia fretta con la considerazione che mio fratello («come fa signora?») non era un pacco postale.
La nuova badante di mia madre ha una di quelle macchinette chiuse che in realtà sono motocicli. Mia madre abita in centro, nella zona a traffico limitato. La nuova badante di mia madre mi ha chiesto se posso farle avere il permesso di transito e sosta nella ztl. Mica per chissà che, eh. È solo che «così porto signora in giro senza taxi».
Alla nuova badante di mia madre ho dato le chiavi di casa. Dandogliele, le ho detto «guarda che io mi sto fidando di te. Ti sto affidando mia madre».
La nuova badante di mia madre mi ha risposto «tu sai che io essere di Sri Lanka, gente di Sri Lanka brava».
Avrei tanto voluto chiederle se avesse una vaga idea di quanto a me interessasse che lei è dello Sri Lanka. Se avesse una vaga idea quanto razziste fossero le sue parole.
La settimana scorsa, all’appuntamento preliminare, un’esperta delle Acli mi aveva detto che durante un convegno, una signora straniera che fa la badante aveva preso la parola contro quello che – mi ha spiegato la consulente – aveva lei stessa chiamato «la bulimia di denaro» delle colleghe.
Quando ho sentito quella frase mi sono un po’ irrigidita.
A ripensarci, però, credo che ci sia un ambito all’interno del quale quella frase ha senso.
Una signora che avevo precedentemente interpellato per questo lavoro con mia madre mi aveva spiegato che il marito fa il corriere, come padroncino, per una ditta di spedizioni, e ha quindici – quindici – furgoni per la consegna della merce.
Credo che se mio marito avesse quindici furgoncini per la consegna della merce io non andrei a fare la badante neanche se la paga base del contratto collettivo fosse tre volte più alta di quello che è.
Dice: «Ma sai che sei una stronza razzista? Non capisci che per loro il denaro è importante perché ci mantengono anche i familiari nel Paese d’origine?».
In realtà, questo è un argomento moralista: che cosa facciamo se, al contrario, non c’è nessun familiare da mantenere nel Paese d’origine? Ci facciamo restituire i soldi che abbiamo dato loro in nero perché facessero cose che i contratti nazionali non prevedono?
Parlando di tutto questo con un’amica – e posso garantire che le persone con cui si possa parlare in questi termini sono poche – quest’amica mi ricordava questo pezzo di Christian Raimo sui lavoratori intellettuali, che avevo letto qualche giorno fa.
In sintesi, Raimo dice che i lavoratori intellettuali sono tutti sfruttati, ma nonostante tutto lo sfruttamento
tutta questa gente non pensa mai – mai, mai – a sindacalizzarsi, a mandare a fanculo chi si occupa di politica culturale.
E a me è venuto in mente il lungo periodo della mia vita nel quale ho lavorato nei giornali.
Penso di poter dire senza troppe esitazioni che le redazioni sono state il terreno di sperimentazione delle «nuove» politiche del lavoro: se tu demolisci una cornice forte come quella del contratto collettivo di lavoro siglato da un’unica sigla sindacale, monopolista, per tutti i lavoratori dell’informazione, il compito di demolire rappresentanze più deboli di lavoratori più deboli diventa un gioco da ragazzi.
Ricordo molto bene che il processo di de-sindacalizzazione dell’ultimo giornale in cui ho lavorato io è cominciato con la monetizzazione dei diritti. In altri termini, con la riduzione alla sfera privatistico-negoziale di ciò che precedentemente apparteneva alla sfera del diritto pubblico.
C’erano schiere di sindacalisti vecchio stampo che ci spiegavano che avremmo dovuto dire di sì alla tal richiesta padronale, ma chiedere e ottenere dall’azienda il corrispettivo della tal indennità.
Ci spiegavano che la via era questa. Ci spiegavano che se avessimo detto no, allora non avremmo avuto più carta su cui scrivere, e saremmo finiti a scrivere sui muri.
A scrivere sui muri siamo finiti tutti lo stesso: chi perché è stato prepensionato, chi perché come me si è dimesso, chi perché sarà fatto fuori in un prossimo futuro non poi così lontano (e io credo che gli stia anche bene).
Ma la cosa importante è che a preparare la nostra morte metaforica siamo stati proprio noi, quando abbiamo deciso di barattare i nostri diritti con i soldi dell’azienda: perché quando l’entità metafisica della Crisi ha cominciato a mordere, ecco che l’asserita penuria di soldi è diventata motivo sufficiente a proseguire l’opera di sottrazione dei diritti senza che più nessuno potesse pretendere di venire per questo in qualche modo economicamente risarcito.
E allora penso che non solo i lavoratori intellettuali precari, ma anche i lavoratori strutturati e protetti – oltre che dal potere che avrebbero potuto (volendo) dispiegare, anche da un sindacato che tempo fa era fortissimo – hanno avuto e hanno un problema: non hanno capito che continuare a dire sì – monetizzata o no che quella concessione fosse – è espressione di una cosa che si chiama servilismo.
Nelle molte curve che il lungo concetto di servilismo nasconde trovano casa tante cose: la fame di soldi, l’idea che il denaro sia misura del valore, allunghi il pene dei maschi e ingrandisca le tette delle femmine; l’opportunismo, la furbizia; e anche la convinzione che la cosa importante è fingere che al padrone sei pronto a lavare il culo con la lingua, e al contempo a fargli esplodere la casa se non ti dà quello che tu vuoi.
La nuova badante di mia madre non era nella redazione dove lavoravo io, e neanche nelle case editrici di cui parla Raimo. Però sa che al datore di lavore devi far vedere che sei pronto a dare sempre un po’ di più di quello che prevedono le regole. Sa che devi sempre dichiarare che la consorteria di cui fai parte tu è il Club dei Buoni, non importa se Buoni dello Sri Lanka o Buoni di Verona. Sa che al datore di lavoro devi sempre far capire che poi una mano lava l’altra, che i diritti possono essere eventualmente monetizzati; o magari che ai diritti si può ben rinunciare in vista di una ricompensa più grande: un giorno di riposo in più, o un’altra traduzione.
E allora, ecco. È qui che io non so più se questa devastazione, se questo universo si sia popolato da patetici servi per una spaventosa questione di cultura, per colpa del condizionamento sociale, o della paura; o per colpa della demolizione della dimensione politica della vita e della socialità…
Quando si ha a che fare con persone di una cultura radicalmente altra dalla nostra, è sempre difficile capire quante delle incomprensioni e degli slittamenti di senso nascano dalla differenza delle storie e del modo di attraversare il tempo e lo spazio.
Ma alla mia età credo di avere imparato una cosa, e di poter dire che non è riduzionismo, perché – anzi – affermare una cosa come quella che sto per affermare implica l’accettazione di un grado enorme di complessità connessa al mero e, questo sì, semplice fatto di essere umani.
Alla mia età, dicevo, credo di avere imparato una cosa: posto che ci sia una certa soglia di linguaggio comune ricorrendo al quale entrare in relazione gli uni con gli altri, la stupidità è diagnosticabile con relativa facilità negli esponenti di qualunque cultura.
La stupidità è (anche) la pretesa di essere più furbi degli altri, magari dicendo «tu sai che gente di Sri Lanka è brava»; magari accettando la resa su un diritto nella speranza che poi il Dio della Giustizia Politica Lavorativa, mosso a commozione, ci renda un po’ di onore; magari accoccolandosi all’ombra di un potente che ti promette protezione a patto che tu non gli dia fastidio.
La stupidità è un insulto all’umano, è la resa. È la negazione in radice di qualunque possibilità di relazione. E – questo è ciò che mi fa impazzire di rabbia – la stupidità ha radici e conseguenze politiche.
Dev’essere stato per questo che stamattina, dopo essere andata alle Acli, ho divorato una stecca di mandorlato Garzotto da due etti.
Dev’essere stato per questo che alla porta di Vib ho appena attaccato il bigliettino «Io do l’elemosina solo a chi mi va. Quindi, non ci provate».
** La badante nuova di mia madre sta venendo qui a presentarmi un’amica alla quale affidare signora quando il sabato e la domenica lei sarà di riposo.
La frenesia di lavorare sembra sostituita da un’immediata mobilitazione del clan degli sri-lankesi.
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