agli amici vicini
Cari amici miei che abitate in luoghi vicini a me,
è da tanto tempo che desideravo scrivervi due righe.
So che la vita è molto impegnativa, e che esige da tutti la più grande attenzione.
Ogni giorno – lo so – ha la sua dose di fatica necessaria, di impegni inevitabili.
Alla sera ci si trova tutti sfiniti, a dare gli avanzi miseri di sé alle persone che amiamo.
Ogni notte pensiamo a quanto impegno ci vorrà per alzarsi l’indomani.
Però io volevo chiedervi questo: che fine avete fatto?
Perché non vi vedo più? Perché non mi telefonate per chiedermi come sto, e cosa sta succedendo nella mia vita?
Penso a voi come a degli amici con cui ho condiviso parti anche importanti della mia vita: conoscete di me pezzi che i miei conoscenti non hanno mai visto; sapete i miei segreti; avete raccolto le mie confidenze, e io ho raccolto le vostre.
Non che alla nostra età le confidenze abbiano un ruolo speciale nella costruzione delle relazioni. Questo è vero. Ormai, non ci scandalizziamo di niente, quasi. Ne abbiamo viste tante, e abbiamo capito che quasi tutte sono rimediabili.
Siete amici, insomma.
Eppure, spesso mi capita di pensare che forse siete amici allo stesso modo in cui Marcello C. era il mio fidanzato quando io avevo sei anni: era il mio fidanzato perché io pensavo a lui come al fidanzato di me bambina, ma se qualcuno gli avesse chiesto «ma tu sei il fidanzato della Fede?» lui avrebbe certamente risposto che no, non ne sapeva niente, e – siccome la sua passione era giocare a calcio in cortile – sarebbe subito corso a colpire il pallone.
Tanti di voi non li sento da mesi. Alcuni, addirittura, non li vedo da anni; e abitano a non più di due o tre chilometri da casa mia. A volte vi cerco al telefono, e non rispondete. A volte vi mando messaggi. Mi dite che certo, mamma mia, ci vediamo senz’altro la prossima settimana; e quando – mesi dopo – vi richiamo, mi ripetete che per la miseria, non questa settimana, ma la successiva organizziamo di sicuro una pizza.
Mi rendo conto che ho cambiato vita, e non sono partecipe della vostra quotidianità come accadeva prima. Mi rendo anche conto che avete mille motivi per essere concentrati su di voi, o per non avere nemmeno il tempo per la curiosità. I figli, i genitori, le preoccupazioni, le paure. Lo so.
Ma vi voglio chiedere una cosa: se pensate di volermi bene; se pensate che essere o essere stati amici miei abbia avuto un senso; se pensate che lo scambio di cose con me abbia avuto o abbia un suo perché, fatevi vivi, anche solo per chiedermi come sto, e come mi sento, e se il mio cuore è leggero o pesante.
Se invece non vi fate vivi, vorrei solo che sapeste che per me non siete più amici.
Un po’ mi dispiace, ma nella vita le cose son così.
Temo che molti di noi potrebbero scrivere una lettera simile. Che tristezza, però.