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Ho visto sulle foto pubblicate da Dagospia che al festival del cinema Uma Thurman e un’altra tipa avevano i sandali uguali.
Ho pensato: «Ma non se ne sono accorti? Assurdo: è una cosa che un giornalista dovrebbe notare immediatamente, soprattutto se si occupa di ‘rosa’».
Ma non avevo più Facebook per scriverlo, e così me lo sono tenuto per me, l’ho detto qui in casa.
Ho letto «Disoccupazione creativa» di Ivan Illich, e (insieme a cose da storicizzare) ho trovato tante cose che mi hanno trapassato, come questa, in cui Illich parla di «pervertimenti di vocabolario»:
L’espropriazione delle parole, l’impoverimento del lessico quotidiano e la sua degradazione a terminologia burocratica corrispondono […] a quella particolare forma di degradazione ambientale che toglie agli uomini la capacità di sentirsi utili se non hanno un impiego retribuito.
O questa, anche:
Varietà sempre nuove di «bambini con problemi» venivano scoperte tra i poveri a mano a mano che gli assistenti sociali imparavano a marchiare le loro prede e a standardizzarne i «bisogni».
Ho pensato: mio dio, sì!
Ma non avevo più Facebook per scriverlo, e così me lo sono tenuto per me; l’ho detto in casa e ieri sera a un’amica che ho incontrato.
Ho letto di questa specie di accordo fra le Regioni a proposito di linee guida sulla fecondazione eterologa, e ho letto che la Lorenzin si ostina in quest’assurdità di «ci vuole una legge, ci vuole una legge», anche se la Corte costituzionale ha spiegato ben bene che non serve nessuna legge.
E allora ho pensato: questo governo deve cadere al più presto, di corsa. Lui, i suoi mille giorni e le sue ministre preraffaellite con l’occhio opaco e senza luce.
Ma non avevo più Facebook per scriverlo, e così me lo sono tenuto per me.
Ho letto di Grillo e degli immigrati che portano malattie.
Ho pensato «basta, non ce la faccio più».
Ma non avevo Facebook per scriverlo, e così ho perfino evitato di pensarci, perché pensarci mi faceva stare male.
Il decalogo di Severgini, ho visto.
La Mogherini salita di grado all’Ue.
Il mobbing sulle donne single.
Le cose di Ustica.
D’Alema, la Canalis, le assistenti sessuali, la locandina con la donna grassa.
Ma non avevo Facebook, e così quello che proprio non potevo ignorare è diventato argomento di conversazione domestica. Come prima, ma con temperatura più fresca: a casa abbiamo idee simili, non c’è bisogno di argomentare troppo.
Ho sospeso l’account Facebook perché vedere fra i miei contatti un numero così alto di persone che apparentemente marcia verso uno scopo mi ha fatto sentire senza scopo e senza luogo. O forse fuori luogo.
Mi sono sentita toccata da sciocchezze, ho percepito la mia fragilità. Siccome il livore non fa per me, l’unica opzione percorribile – a stanchezza crescente – mi è sembrato il silenziamento temporaneo della mia voce ‘pubblica’, se quest’aggettivo ha qualche senso.
Su Facebook non faccio il personaggio. Non gioco la partita della simpaticona, dell’intellettualona, della fragilona, della cinicona, della bellona…
Mi fanno sempre specie le persone che dicono che su Facebook siamo tutti finti, perché a me sembra che su Facebook sia difficile essere più finti di quanto lo siamo nella nostra interazione sociale ordinaria, mediata o no che essa sia.
Un certo grado di insincerità è necessario a vivere nel mondo. Si chiama destrezza sociale, ma anche solo buona educazione.
Su Facebook ci sono effettivamente persone che fanno molesta apologia di sé.
Però credo che siano i primi cantori di se stessi anche nei contesti non virtuali, e non sono sicura che l’argomento che tutto questo fuoco di sbarramento serve a mascherare la loro insicurezza possa lenire la mia sensazione di estraneità e di fastidio.
Credo che alcuni – mi viene in mente in particolare un amico scrittore – siano genuinamente convinti che darsi da fare tantissimo per tenere relazioni con il «giro» sia il loro dovere. Li capisco, e in qualche misura li ammiro.
Il fatto è che al momento non sono in grado di sopportarli.
Così, è finita che ho sentito dentro una cosa: se metto in mezzo del tempo fra il momento in cui màcino una cosa e il momento in cui faccio diventare quella cosa un elemento di una relazione umana (anche virtuale, collettiva), quel tempo è solo mio, e quello che in quel tempo di mezzo io penso si mescola con quello che io sono.
E quando quel pensiero esce e va di nuovo verso il mondo è un pensiero diverso, perché mi ha attraversato nel mio silenzio.
Lo so, lo so: apperò che scoperta, Federica… Tu sì che sei un tipo intelligente.
Ma una cosa è capirlo di testa; altro è sentirlo.
E io adesso lo sento.
Tutta la mia atroce stanchezza ha bisogno di un luogo appartato in cui essere tenuta al caldo e al riparo.
In questo momento la dimensione della socialità indifferenziata mi disgusta.
I titoli dei giornali, i pezzi, le prese di posizione «politiche» (ma la politica è morta, e l’aggettivo è improprio), le battaglie, le uscite ideologiche.
I «gela», le «strette», le «ire», le «polemiche», i «moniti», gli «ecco come/cosa/perché/dove».
Tutte le parole pervertite, tutto il senso espropriato.
Sono tutti coltelli che tagliano.
E tagliano tanto più profondamente chi come me ha sempre creduto in quello che ha fatto.
E così, questo è il momento di non ascoltare e di tacere.
È il momento di sentirsi.
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