excludo, clusi, clusum, ere
Mentre aspetto di dover richiudere la finestra da un momento all’altro per l’ennesimo temporale monsonico, ho realizzato che da un po’ di tempo sto pensando due o tre cose che mi fa piacere lasciare scritte qui.
A volte c’è come bisogno di mettere un punto, o di tirare una riga, fare le somme e ripartire da quel conto lì.
A me, perlomeno, capita così.
sul dibattito/non dibattito
Sottotitolo: eh, ma è troppo comodo parlare soltanto con chi la pensa come te.
Su Facebook ho postato ieri la foto che metto qui sotto (cliccare per vederla più grande):
Fra le persone che hanno commentato, Giuseppe Lorenti dice:
Ciao Federica, condivido l’indignazione. Ma non basta più. La questione razzismo è diventata profonda e molto diffusa. L’equazione razzista= barbaro incivile non funziona. Avrai letto quanto ha denunciato Peppe Barra sulla situazione a Napoli. Ti seguo e mi sembri una donna che non fa sconti a nessuno, mi farebbe piacere leggere una tua riflessione più approfondita.
Giampietro Vecchiato, invece, scrive questo:
Qui NON si tratta di razzismo!
stanchezza
Voglio solo dire, di striscio, quel che ho già detto altre volte: ci sono cose su cui io come chiunque fatico ad aprire discussioni, perché l’ho fatto milioni di volte, perché su quelle cose ho messo a prova le mie opinioni per molto tempo, con accanimento, ed esse – vagliate per quanto ho potuto – sono alla fine diventate una base su cui si fonda la mia coscienza civile e politica.
Posso cambiare idea, certo. Uno non sa mai cosa può accadere nella vita. Però anche il momento in cui cambiare idea è un momento che deciderò io, quando sentirò che la mia opinione non mi soddisfa più.
Metto molta energia nelle cose che faccio, e anche nelle discussioni.
C’è stato un momento, nella vita, in cui ho capito che ci sono situazioni in cui la scarsità di energie disponibili mi impone di fare una scelta.
Le cose da fare sono troppe, e ci sono cose che all’anima mi fanno meglio di altre.
Non sempre discutere mi porta da qualche parte.
A volte mi porta solo a prendere atto che non ci si può intendere.
È un risultato importante, è vero, ma in parecchi casi mi è costato una fatica sproporzionata al risultato.
Devo fare i conti con la forza che ho.
Che cambiassi idea, comunque, è già accaduto non raramente.
Per esempio, io ero una grande sostenitrice del principio meritocratico.
A un certo punto, una lampadina si è accesa e nella meritocrazia ho visto un buco.
Ci ho ragionato, ho letto, mi sono confrontata. Ed è finita che in «Il paese dei buoni e dei cattivi» c’è quello che ora io penso della meritocrazia, e non quello che pensavo dieci anni fa.
cambiare idea
Allora.
Peppe Barra.
Non mi impressiona il fatto che una persona storicamente considerata di sinistra, per quanto persona autorevole, dica cose in contrasto con quelle precedentemente sostenute – o con cose che noi, senza averne certezza immaginiamo avrebbe/abbia detto, o le attribuiamo come pensiero personale prendendo le parole della sua arte e portandole nella sua vita.
Possono piacermi le cose di Peppe Barra e non piacermi Peppe Barra.
Il fatto che lui cambi idea non è sufficiente a farmi pensare se non sia il caso che l’idea la cambi anche io.
l’uno e il molteplice
Per motivi per così dire «tecnici», un pezzo della mia vita da adolescente l’ho vissuto abitando in una casa a canone agevolato.
Ero ragazzina, e pensavo che i «poveri» (uso di proposito una categoria semplificata) fossero coloro in nome dei quali andavano combattute tutte le battaglie.
Dopo un po’ di tempo che abitavo lì, ho realizzato che c’erano «poveri» che mi stavano odiosi; che c’erano «poveri» di cui avevo paura; che c’erano «poveri» con cui non avrei voluto condividere non dico uno spazio ma nemmeno l’aria da respirare.
Eppure, da sorella di un bambino handicappato (allora era un bambino, caro), avrei dovuto sapere che la condizione di minorità – o, per essere un po’ brutali, la situazione di sfigato – non è di per sé indicativa né di uno stato più evoluto di autocoscienza (per esempio, il «povero» politicizzato che vede le colpe del «sistema» e capisce che la sua condizione deriva da un assetto sistemico del mondo), né di una immunità (compensatoria, direi) dall’antipatia, dalla rozzezza, dall’insolenza, dalla volgarità, dalla cattiveria, dal livore, dalla prepotenza, dall’arroganza.
lezioni
Insomma. Avrei dovuto già sapere per esperienza diretta che ci sono disabili molto stronzi.
Alcuni, peraltro, sono anche rivoltanti: se per esempio puzzano di saliva incancrenita sulle maglie perché le madri e i padri sono troppo stanchi, o troppo pigri per cambiar loro i vestiti; oppure puzzano di pipì, e anche di cacca. (Ma chi sono io per giudicare la pigrizia di qualcuno finché non ne conosco i perché? Non mi è forse sufficiente starne alla larga, se quella pigrizia induce conseguenze che a me non piacciono, conseguenze con cui mi trovo a disagio?)
Avrei dovuto dunque anche sapere che – per estensione – esistono «poveri» da cui è meglissimo tenersi a distanza.
E invece è stata una sorpresa, ma ho imparato delle cose.
posso dire no
Ho imparato, per esempio, che una cosa è il piano individuale di relazione, e un’altra cosa il piano sociale-sistemico.
Uno potrebbe dire: wow, bella questa cosa; ma cosa c’entra con i rom a cui secondo la direzione di quel supermercato non si deve dare l’elemosina?
Eccomi.
Sul piano individuale, io come chiunque altro ho tutto il diritto di negare l’elemosina a chiunque.
Mi è sempre concesso il diritto di dire no, a qualunque cosa attraversi il terreno sul quale io muovo i miei passi.
Io posso dire no e assumerne le conseguenze.
Posso evitare di frequentare i «poveri».
Posso evitare di baciare l’handicappato puzzolente.
Posso non dare l’elemosina, e per motivi futili quanto la puzza del disabile di cui sopra.
negare la realtà dell’altro
Tra l’altro, incidentalmente, non è che dare un bacio di saluto a un disabile puzzolente mi metta in condizione di meritare un riconoscimento speciale: la sua effettiva realtà è che egli puzza, e se io lo bacio cristianamente facendomi violenza nego la sua realtà, che è quella di uno che puzza.
A me hanno insegnato che negando la realtà di qualcosa o di qualcuno non si va da nessuna parte, e non nascono relazioni. Ma vado di corsa, e questa cosa la lascio perdere.
il supermercato
Dunque, torniamo ai «rom» del cartello del supermercato.
Che diritto ha la direzione del supermercato di prendere posizione agendo come soggetto collettivo?
Secondo me, nessuno.
La vera verità è che la direzione del supermercato non vuole che fuori ci siano persone – rom – che chiedono l’elemosina, perché ai clienti dà fastidio.
una storia
Davanti a un supermercato biologico della città dove per ora vivo, Verona, c’è sempre una signora che chiede soldi. È vestita con la gonna lunga e tanti stracci di cotone.
Per molto tempo, ho evitato di andare in quel supermercato.
Quando mia madre era incinta di mio fratello – l’unico che ho; quello che poi, per avere avuto troppo ossigeno nell’incubatrice, ebbe un’emorragia cerebrale – un giorno incontrò una donna che nel vestire somigliava a quella che vedo fuori dal supermercato biologico.
Da piccola l’avrei chiamata zingara; adesso non so più come chiamarla, e so che quest’ignoranza è colpa mia.
Quella donna chiese a mia madre l’anello che portava sopra la fede.
Mia madre la mandò a quel paese.
E lei rispose: «Devi passare un guaio nero», «a’ ra passa’ nu uaje nir».
le colpe
Le cose strane riescono a infilarcisi sottopelle soprattutto quando siamo fragili. E così, quando si scoprì che mio fratello era e per sempre sarebbe stato disabile, mia madre pensò a tutte le sue possibili colpe.
Aver fumato qualche sigaretta.
Aver accettato che all’inizio della gravidanza le venisse asportato un minuscolo polipo uterino.
Aver negato l’anello a quella donna.
È finita che nell’immaginario familiare le donne che somigliano a quella donna – zingare? Rom? «Povere»? Fa forse differenza? – sono sempre state considerate detentrici di un potere infero, legato all’alterazione del destino altrui.
Per semplificare, potrei dire «streghe».
Con il che ammetto un pregiudizio razzista e sessista, perché – curiosamente – non ho mai avuto lo stesso tipo di paura degli uomini questuanti.
«autogestire» le paure o istituzionalizzarle?
Il mio «no» a queste donne che chiedono soldi, però, me lo sono sempre gestita in proprio.
Non ho mai chiesto al sindaco del Comune, alla polizia, ai vigili urbani o a dio un intervento per renderle fuorilegge.
I miei sensi di colpa me li sono gestita in proprio tutte le volte che ce n’è stato bisogno, e non ho mai preteso che dal mio pregiudizio sfavorevole discendesse una regolamentazione in forza della quale il mio fastidio si trasformava in legge.
Al mondo ci siamo tutti: loro e io.
Se non voglio vederle mi organizzo io; non posso chiedere al «papà» che me le levi dai piedi.
i diritti sono uguali
Ma se qualcuno mi chiede quali siano i diritti civili di queste persone, io sono certa che esse abbiano gli stessi diritti che ho io.
Dunque, anche quello di elemosinare dove vogliono e quando vogliono. Perché io posso sempre dire no. E il fatto che io poi mi senta cattiva non è un problema loro, ma solamente mio.
Se non so sopportare la mia «cattiveria» sono affari miei.
«non sei ‘cattivo’, è solo la legge»
E cos’hanno fatto, i sindaci delle nostre città, quelli le cui grida sono state rese (apparentemente) legittime dal ministro leghista dell’Interno Maroni?
Si sono fatti carico delle nostre paure e dei nostri pregiudizi e li hanno fatti diventare norma, senso comune.
Si potrebbe pensare che ci hanno fatto risparmiare soldi in psicoanalisi, forse; se non fosse che coloro che sono felici di poter considerare fuorilegge un mendicante non sono, probabilmente, i clienti tipici di uno psicoanalista (affermazione gratuita, vero?).
I sindaci hanno legittimato la nostra ferocia, nel senso letterale che l’hanno fatta diventare legge.
Tu no, tu sì, tu ni.
E, quanto a me, certamente sì.
Io sì, io posso fare di te carne da macello, posso disconoscere tutti i tuoi diritti, perché sei diverso da me.
escludere i diversi
Eccomi al punto, comunque.
Io fatico a capire come si possa sostenere che non sia razzismo escludere programmaticamente dall’appartenenza a una società le persone per mille motivi «diverse».
Sembra che gli anni Settanta siano passati per niente.
Ancora a discutere di questo.
È esasperante.
Sono stanca di sentire argomenti razzisti seguiti dall’affermazione «io non sono razzista, la questione è diversa».
nessuno è mai razzista
Nessuno – stricto sensu – è mai razzista.
C’è sempre un barlume di motivazione che si situa al di fuori del campo del puro razzismo: la rivendicazione di qualcosa che viene percepito come un’ingiustizia, la difesa di qualcosa che viene percepito come un diritto negato.
Non rileva il fatto che coloro che io voglio fuori dal mio consesso sociale a meno che non diventino come me siano oppure no appartenenti a un’altra «razza». «Razza», poi…
Non rileva che siano o no neri, gialli, senza gambe, rom, o qualunque altra cosa.
io-noi-la legge
Rileva solo che io – e quell’io è un «io» collettivo la cui volontà di escludere viene fatta propria dall’autorità che localmente o a livello nazionale incarna la legge – non li voglio, e che io (sempre l’«io» collettivo) mi sento il potere di cacciarli, deportarli, allontanarli, criminalizzare il loro comportamento che mi è sgradito.
i soldi
Ora.
Che i rom che chiedono l’elemosina fuori da quel supermercato guadagnino di più di un operaio specializzato italiano e siano anche evasori è una circostanza che merita qualche parola.
Innanzitutto, andrebbe accertato «scientificamente» quale sia l’incasso medio di un mendicante fuori da quel supermercato.
Poi bisognerebbe avere le tabelle delle paghe di un operaio specializzato, del quale non si capisce a cosa giovi rilevare la nazionalità italiana.
Incidentalmente, a chi dice che questo non è razzismo, vorrei fare notare che fra gli operai specializzati che lavorano in Italia non ci sono soltanto gli italiani, ma anche molti cittadini che vengono da altri Paesi dei mondo.
È (anche) il riferimento alla nazionalità dell’operaio specializzato che fa di quel cartello e di questa storia una storia di razzismo.
dignità?
Se gli fosse indubitabilmente più conveniente elemosinare fuori da quel supermercato, perché un operaio specializzato di nazionalità qualunque non va a chiedere l’elemosina fuori da quel supermercato e resta nella sua fabbrica?
«Poffarre, per una questione di dignità!», mi si potrebbe rispondere.
Se mi si risponde così, però, si ammette che un mendicante rinuncia alla propria dignità nel momento stesso in cui decide di mendicare.
e se l’operaio…?
Noi, che siamo gli esseri superiori abilitati a conferire patenti di dignità, faremmo d’altra parte osservazioni molto moraliste se un operaio specializzato che guadagna meno di un mendicante rom scegliesse di mettersi a mendicare per guadagnare di più e fare stare meglio la sua famiglia.
Gli diremmo che non ha senso avere lasciato il lavoro; gli diremmo che ha perso la dignità; gli diremmo che è troppo facile fare così.
In sostanza, gli diremmo che accettare di perdere la dignità è troppo facile.
Ma se è troppo facile, perché non lo facciamo anche noi?
Forse che ci piacciono le cose complicate e quelle semplici sono immorali?
Forse che la soglia dell’immoralità si trova sempre un millimetro al di là di dove si trova il nostro piede?
i soldi sono miei
Poi, quand’anche venisse «scientificamente» acclarato che un mendicante medio guadagna, fuori da quel supermercato, più di un operaio specializzato di qualunque nazionalità, vorrei sapere per quale motivo il supermercato debba chiedermi di non dargli soldi.
Io do i miei soldi a chi mi pare e piace.
Posso perfino darli al padrone di un supermercato che – chissà – paga poco i suoi dipendenti; o paga i suoi operai specializzati meno di quel che i mendicanti rom incassano esentasse.
evasione fiscale
È forse un problema di evasione fiscale, quello di cui il cartello del supermercato vuole renderci consapevoli?
Se fosse questo, be’, che cosa potremmo dire dei commercianti che commettono evasione fiscale?
Come la prenderebbe, un commerciante evasore, se io scrivessi un cartello e lo attaccassi davanti alla porta del suo negozio?
Un cartello così, magari:
«Gentili clienti di questo commerciante,
vi invito a non acquistare alcun bene da questo commerciante, che non rilascia scontrino fiscale, sostiene di essere povero, e invece ha una casa al mare, una al lago, una in montagna e ha i figli che studiano all’estero».
Tremendo, no?
Cosa succederebbe se io non avessi effettivamente accertato che quel commerciante non rilascia scontrino fiscale, se non avessi sentito con le mie orecchie e in presenza di testimoni sue dichiarazioni a proposito del suo stato di povertà?
Cosa succederebbe se le tre case non fossero intestate a lui ma, boh, a qualche società? Se i suoi figli studiassero all’estero lavorando per mantenersi agli studi?
compenso per la dignità perduta
Succederebbe che il commerciante mi querelerebbe per diffamazione, e con buona ragione.
Non mi metterò a sostenere che il mendicante fuori dal supermercato denunci al fisco i suoi guadagni da elemosina.
Dico solo che se ciò che guadagna un operaio specializzato è poco ma gli garantisce la dignità, non vedo motivi per i quali un essere umano che rinuncia alla sua dignità non debba essere ripagato di questa rinuncia attraverso un guadagno che compensa questa perdita.
invidiosi di un rom
Che sentimento vuole suscitare, quel cartello, in chi lo legge?
Direi che – a essere completamente onesta – quel cartello vuole suscitare la rabbia e l’invidia.
Sento già le risate.
Eppure, come lo chiamiamo un sentimento che intende farci convinti che noi, con tutta la fatica che facciamo per arrivare a fine mese, comunque prendiamo meno soldi di un tale che sta seduto tutto il giorno a impietosire gli altri?
ribellione?
Se lo chiamassimo ribellione a un’ingiustizia ne faremmo una questione politica.
Invece, ne facciamo una questione personale.
«Non date soldi», come individui, a quei mendicanti.
È l’elevazione a regola politica della nostra invidia per qualcuno che ha accettato di perdere la dignità – ancora meglio: che non sa che cosa sia la dignità, e se ne frega – e guadagna più di noi.
la «democrazia diretta» e mamma sindaco
Non separare il piano individuale da quello collettivo e politico può condurre solo in due direzioni, e non saprei qual è peggiore dell’altra:
– la creazione di una finta, ridicola e pericolosa democrazia diretta alla Grillo (referendum via web, leggi via web, processi via web…), e
– la polverizzazione di qualunque possibile senso della collettività: io voglio che mamma sindaco mi tolga dai piedi quelli che non mi piacciono, e mamma sindaco me li toglie dai piedi perché sa che io poi la voto di nuovo.
voi no
Le politiche esclusive – che escludono – sono sempre razziste, anche quando non si basano sull’esclusione su base «razziale».
È sufficiente che puntino a escludere (dai diritti che abbiamo noi giusti, dal consesso civile…) un’intera categoria di persone.
Al mondo c’è sempre stato chi chiede l’elemosina, c’è sempre stata gente che non sa come vivere.
sfruttamento
E a me come «donatrice di denaro» (come cittadina sì, ma la mia reazione si misura su un altro piano: non su quello del cartello del supermercato) non interessa se quelle persone sono sfruttate oppure no da organizzazioni criminali, perché se anche così fosse, quelle persone hanno ancora più bisogno della mia elemosina, altrimenti quando tornano alla base il loro boss non dà loro nemmeno da mangiare.
Se vogliamo porci il problema delle organizzazioni criminali che sfruttano i mendicanti non cominciamo dai mendicanti: cominciamo dalle organizzazioni.
favolette
O speriamo che non dando soldi ai mendicanti le organizzazioni criminali si sciolgano come neve al sole? Abbiamo davvero questa folle speranza?
Come si è deciso di fare, con le prostitute schiavizzate?
Non si è forse stabilito che, se avessero aiutato nell’identificazione di coloro che reggevano il traffico, sarebbero state protette?
Perché, dunque, ai mendicanti dobbiamo solo dare calci metaforici in faccia?
dalla lega al pd
So bene che questa deriva non è solamente veronese, tant’è che il cartello è di Catania.
Ma questo non mi impedisce né di ricordare che la Lega è stato lo strumento politico (per così dire) attraverso il quale sono state legittimate la nostra ferocia sociale, la nostra protervia, la nostra presunzione di fare sempre e comunque parte dell’universo dei buoni e dei giusti (tant’è che se le tasse non le paghiamo noi è perché dobbiamo pur salvarci da un fisco oppressivo, e se non le pagano i mendicanti è perché sono degli sporchi evasori senza attenuanti né alcun beneficio del dubbio), né che la Lega ha avuto potentissimi alleati nei (politicamente) ignavi e nei (politicamente) cinici.
Dobbiamo ringraziare Bossi, Maroni, Berlusconi e i loro manutengoli.
Dobbiamo ringraziare il Pd e le sue servette, termine col quale – che sia chiaro – alludo a maschi e femmine.
Dobbiamo ringraziare i giornali e i giornalisti, che non hanno voluto o potuto capire, per ignavia o per intenzione, a quale deriva stavano contribuendo.
i giornali (postilla)
Infine, ecco una postilla.
La mia vita è trascorsa nei quotidiani locali.
Non è mai successo che una riunione di redazione (non parlo delle assemblee sindacali) ci si sia interrogati su cose di questo genere.
Non è mai successo che a un giornalista interno sia stato consentito di scrivere una breve analisi dei fatti quando – che so – usciva una nuova ordinanza o una nuova delibera: sempre e solo editorialisti che avevano da spendere un brand che proprio il giornale aveva loro consentito di costruire.
gli «opinionisti»
Così, finché ho lavorato nei giornali, non ho mai avuto il diritto (io come i colleghi) di pubblicare una mia opinione su qualcosa – se non un paio di volte in anni e anni – mentre invece prosperavano gli editoriali di «intellettuali» che adesso si lamentano perché non vengono pagati per i loro alati interventi.
Il giornalista è diventato uno spalatore di merda a meno che non sia un brand.
Ha un’identità sociale, ma non opinioni, a meno che non cerchi un luogo diverso dal giornale per esprimerle.
In compenso, articolesse di collaboratori celestiali.
E io, però, mi domando: scrivere opinioni è un lavoro?
Ci penso da anni, sempre cercando una risposta differente da quella che mi viene.
Ma la mia risposta è sempre quella.
No. Scrivere opinioni non è un lavoro.
E sto ancora riflettendo sul fatto che, in se stesso, meriti di essere pagato oppure no.
Recent Comments