let it be-lascia che sia
Oggi sono stata a vedere una cosa, e ieri ne ho viste altre due.
Al Victoria and Albert Museum ho visitato una mostra che si chiama The Glamour of Italian Fashion.
Beh.
È meravigliosa.
C’erano spezzoni di documenti televisivi delle sfilate degli anni Cinquanta; riprese di donne che ricamavano cose meravigliose in non so quale sartoria italiana, abiti magnifici, bozzetti e disegni.
Le tre cose più belle erano un meraviglioso abito-scultura del mio amato Capucci (foto), nella mia combinazione di colore preferita, quella che parla ai miei sensi, fucsia e verde; uno splendido abito da sera bianco (che linea, che linea) di Armani; e un vestito di Valentino.
Nella donna che cuciva ho visto mia madre, che per molti anni, da ragazzina, è andata a scuola di sartoria, ed era specializzata in reggiseni di abiti da sposa – incorporati nei busti degli abiti e perfettamente conformati sul corpo della donna che indossava il vestito – rifinitura a mano delle asole e rivestimento dei bottoni.
Nel cardigan (foto) di un giovanissimo Ottavio Missoni ho visto il cardigan che mio padre, prima di morire, aveva chiesto a mia madre di comperargli.
Mia madre ne chiacchierò con la più giovane delle sue cognate, la quale disse: «Vaeà, no sta a butar via tuti quei schei, ché te gavarè de bisogno. Te o femo nialtre un bel cardigan par Renso».
Mia madre obbedì per non creare un caso, e se ne pentì fin da subito.
Oggi che ho visto quelle donne che cucivano e quel cardigan appeso a un manichino io ho pianto.
La moda può essere arte, e parla alla tua immaginazione come fa l’arte. E nella sua trasformazione delle sagome dei corpi, un abito è un’opera di scultura, di ridefinizione delle forme.
Quello che ho visto esposto era così intensamente «mio», mi appartiene così profondamente, che mi sono stupita di quanto fortemente, a volte, io riesca a sentirmi italiana.
Alla fine della mostra c’era un filmato con alcune interviste a grandi nomi della moda italiana di oggi.
Nessuno di loro parlava un inglese decente.
Nemmeno le giornaliste delle più gloriose riviste di moda.
Mi ha fatto impressione, ma che questi inglesi ci abbiano addirittura piazzato i sottotitoli per correggere gli errori è un gesto di spocchia inaccettabile, che mi ha fatto molto arrabbiare. Avrei volentieri chiesto ai curatori se a loro giudizio davvero non si capiva cosa dicessero quelle persone; se davvero c’era bisogno di umiliarle così.
Comunque, stanno succedendo molte cose che mi dicono qualcosa.
Il mondo mi sta parlando per segni, o forse li vedo io; ma non è che faccia una qualche differenza.
Il mio scrivere in italiano ha un suo senso.
Il mio legame di molto trasformato con il giornalismo mi dice qualcosa.
Le mie recenti decisioni mi dicono qualcosa.
Ieri sono stata qua, invece, al Museum of Brands, Packaging and Advertising.
A casa del nemico, praticamente.
Ne sono uscita con il numero di telefono del fondatore, che da quando aveva sedici anni raccoglie confezioni originali di prodotti industriali dall’epoca vittoriana in avanti.
Il museo è bellissimo, e allestito molto bene.
Non so come si chiamano, ma quelle specie di cose di cartone dove da un buchino vedi tutti i personaggini di carta su grande una profondità di campo sono molto emozionanti.
Vedere la prima confezione del Vim fa effetto. È bello anche riconoscere nella serie storica qual era il barattolo del Nesquik di quando andavi alle elementari e tuo padre si ostinava a comperartelo anche se sapeva che ti piaceva di più l’Ovomaltina (c’era anche quella).
È bello vedere come doveva essere la radio che ascoltava mia madre durante la guerra. Come venivano vendute le sigarette…
E ieri sera, a teatro, ho visto The Curious Incident of the Dog in the Night-time.
L’allestimento è spaziale, magnifico, incantatore.
Non ho capito come mai le persone ridevano; era un racconto tragico, e parlava dell’impossibilità di comunicare, di toccare, di «stabilizzare» il futuro.
Come si vede alla fine del brevissimo video qui sopra, Christopher lascia che gli altri – i genitori, in effetti – attraversino la sua sfera di intangibilità fisica solo attraverso il contatto con i palmi delle mani.
Mio fratello e io ci salutiamo così da sempre.
Il movimento è lento, le mani si avvicinano piano, e le dita si stendono a poco a poco.
Poi, si appoggiano l’una all’altra. Io non devo mai dare l’impressione di voler bloccare un suo movimento. Anche un abbraccio deve lasciarlo libero, deve essere breve, mirato.
L’ho realizzato ieri, guardando lo spettacolo.
Sì.
Ci sono dei segni.
E un altro è una cosa che non è successa; è un sentimento che mi attraversa.
È let it be.
Lascia che le cose siano, che i sentimenti siano.
Dirlo in italiano e dirlo in inglese è diverso.
Le lingue mi servono tutte e due.
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