colleghi, è ora
Cari colleghi giornalisti.
Sta nascendo qualcosa.
Lo chiameremo «La coppa del mobbing nelle redazioni»; o come vogliamo.
Sarà un ‘contenitore‘ in cui metteremo le nostre esperienze.
Diremo a voce alta che nelle nostre redazioni c’è un problema, cari concittadini e connazionali.
C’è un problema che si chiama mobbing.
C’è un problema che si chiama inosservanza della legge che obbliga i datori di lavoro a promuovere il benessere dei lavoratori.
Cari colleghi giornalisti.
Siete in difficoltà? State sperimentando ciò che parte della letteratura sul mobbing chiama «abuso emozionale»?
Siete isolati? Chiedete chiarimenti, spiegazioni, aiuto, e nessuno risponde alle vostre domande?
Vi sentite messi in condizione di non nuocere?
Perdete fiducia in voi stessi giorno dopo giorno?
Avete paura di capire male, di essere troppo suscettibili? Pensate di non avere il fisico?
Qualcuno vi sta facendo credere che siete delle mammolette perché non avete abbastanza palle da accettare la pubblica e costante umiliazione della vostra dignità?
Vi sentite ridicolizzati, schiaffeggiati?
State male?
Realizzate che il sindacato non vi sta aiutando, ma in qualche caso è, purtroppo, e drammaticamente, uno dei problemi?
Bene: io sto parlando a voi.
E per voi ho due notizie: una buona e una cattiva.
Quella cattiva è che non vi siete inventati niente. C’è un’altissima probabilità che ciò state vivendo sia assolutamente, perfettamente corrispondente al modo in cui *voi* lo sentite.
C’è un’altissima probabilità che quello che state subendo si chiami mobbing, o bullying, o emotional abuse, o victimisation, o vilification, o harassment.
Anche se nelle vostre redazioni fanno finta di non saperlo, e forse davvero non lo sanno, ne hanno parlato libri e studiosi di tutto il mondo.
Non sarete né i primi né, purtroppo, gli ultimi.
E non è colpa vostra.
La buona notizia è che:
– se accettate l’idea che ciò che state vivendo è estremamente *doloroso*, e che le parole vanno usate bene anche quando sembrano troppo grosse, e perciò un dolore si chiamerà dolore, e non ‘fighetteria’;
– se sentite il bisogno di trovare un posto in cui lasciar cadere il sassolino del vostro dolore; di avere un luogo in cui venite ascoltati da chi ha avuto esperienze simili alle vostre; di essere rassicurati, sostenuti e indirizzati alle persone che possono aiutarvi, che sono psicologi e avvocati; e
– se avete voglia di cercare un senso in quello che vi succede,
sappiate che la qui presente Federica Sgaggio, forte (e debole, ma la debolezza è una grande forza!) della sua esperienza è pronta ad ascoltare i vostri racconti, a custodirli, a tenerli con sé.
Cosa se ne farà?
Da questa nostra comune esperienza uscirà qualcosa:
– innanzitutto un luogo in cui mettere a disposizione esperienze, contromisure, conoscenze, indirizzi di persone a cui chiedere aiuto;
– e poi anche un documentario sul legame fra mobbing nelle redazioni e libertà di stampa (ovvero l’oggetto della tesi del Master in giornalismo che sto facendo in Irlanda, all’Università di Limerick. Ma nessuno di voi ‘entrerà’ nella tesi. Questa è un’altra cosa).
Useremo le nostre facce, oppure no.
Le nostre voci, oppure no.
Io la mia faccia ce la metto, e metto anche la mia voce.
Voi fate come volete. Io proteggerò il vostro anonimato.
Io sono a disposizione.
È arrivato il momento di non avere più paura.
Giovedì sera alle 20.45 in via Oberdan 14 a Verona, nella sede di Sel, trovate me che parlo anche di queste cose.
Ma potete scrivermi messaggi su Facebook, su Linkedin, su Twitter; mandarmi mail; telefonarmi, se avete il mio numero.
Io ci sono.
E ringrazio chiunque vorrà accettare l’idea che noi giornalisti dobbiamo avere coraggio.
Un abbraccio a tutti i colleghi che stanno male per quello che vivono sul lavoro.
Sappiate che non è un problema vostro.
È un problema del giornalismo.
Adesso che il fenomeno tocca anche il vostro settore vi svegliate. E da 5 anni che combatto come ex vittima del mobbing ,ma nessuno ha dato risalto o contattato per pubblicare la vicenda di un impiegato che viene mobbizato dal sindacato per cui lavorava.
Caro Pietro,
purtroppo la mia categoria si è tutt’altro che svegliata.
Né, ahimé, posso dire di essermi svegliata io, che ho combattuto per anni, in (quasi) completo isolamento, e dunque mi ero svegliata parecchio tempo fa, ottenendo l’unico risultato di essere spinta alle dimissioni.
Il fenomeno tocca la nostra categoria da tantissimo tempo.
Solo che a quanto pare nessuno ha pensato che il suo caso, il suo dolore, la sua angoscia potessero avere senso per tutti, se venivano condivisi.
E tanta, troppa gente – anche nel giornalismo – ha paura.
Per definizione siamo collaterali al potere, e quando sfuggi a questa definizione cominci a diventare in una certa misura pericoloso per l’organizzazione di cui fai parte.
Di quel che scrivi mi fa piacere una cosa: che ti definisci «ex» vittima.
Vuol dire che pensi di avere superato quel che successe, e questo è meraviglioso.
Io so che non sarò mai «ex»; che non potrò mai fare finta che questo non sia accaduto.
Che non potrò mai più essere la stessa, perché sono stata fatta a piccole fette.