imparare

irlanda_acqua_e_cieloNon l’ho ancora letto, questo libro di Valeria Parrella che si intitola «Tempo di imparare».
Ero andata per comperarlo, ma non c’era.
Perciò, posso solo parlare di ciò che le recensioni che ne ho letto mi hanno mosso dentro.

È la storia di una madre e di un figlio handicappato.
Concita De Gregorio ne parla con un tono enormemente elogiativo, benché nel suo usuale stile medio che mi genera sempre una curiosa inquietudine.

Io non so se la storia sia vera, quasi vera, un pochino vera, o finzionale.

L’assunto di base, mi pare, è che un figlio handicappato insegna, e che una madre deve imparare.

Da sorella, so che è vero perfino per le sorelle.
Confermo.
Impari miliardi di cose: che la normalità è larga come il mare, che esiste il dolore che non ha fine, che la vita fa male, che il cuore può piangere per sempre anche se nessuno lo vede, o lo vedono in pochi.

Ai miei, quando mio fratello era piccolo, ripetevano tutti che dovevano «accettare» di avere un figlio handicappato.
È vero.
Ma l’accettazione non è un’azione. È un processo, e non finisce mai, né segue permanentemente un’unica direzione.
Vai verso est e poi torni indietro, ti fermi, sali e scendi.
Se ti vedessero dall’alto, saresti la linea incoerente di un quadro astratto.

Non solo: non si tratta solo di accettare un figlio (nel mio caso, un fratello) diverso da come lo volevi, credo; si tratta anche di ristrutturare la tua identità – di accettare un nuovo te stesso, dunque – come genitore (nel mio caso, come sorella e come figlia).

Questa cosa che da un handicappato si impara sempre, ecco, a me fa rabbia.
Si impara da chiunque, e da qualunque cosa ti metta alla prova.
Per imparare, però, a volte paghi prezzi enormemente alti; e questo non dico che vanifichi l’apprendimento, ma rende perlomeno desiderabile la condizione di chi non ha dovuto imparare granché.

Mi sembra e mi è sempre sembrata retorica da estranei, questa cosa dell’imparare.
E quando viene da chi ha vicinanza esistenziale con una persona handicappata mi sembra retorica autoconsolatoria.

Una delle cose che si imparano, infatti, la impari quando tuo figlio o tuo fratello o tua sorella non ha sei o sette anni, ma è grande di quella grandezza che non puoi neanche dire se sia un’età adulta benché abbia le rughe e i capelli bianchi.

Quando si tratta di handicap, la cosa che impari è questa: che non c’è nessun apprendimento più importante di quello dell’inevitabilità della sconfitta.
Da piccola, sognavo costantemente che mio fratello «guarisse», come se fosse stato malato…
I miei sognavano che «migliorasse» e vivesse la sua esistenza in una situazione il più possibile familiare.

Mio fratello non è guarito, non è migliorato, e vive in un istituto.
Non c’è sconfitta più cocente, per chi pensava che un handicappato avesse qualcosa da insegnare.

Gli insegnamenti conducono da qualche parte che ci piace immaginare più bella, ricca, feconda del luogo in cui si stava prima di cominciare il viaggio di quello specifico apprendimento.
Invece, questo speciale tipo di apprendimento insegna il contrario, e lo capisci quando non hai più voglia di dare lezioni a nessuno perché sei troppo deluso e addolorato per farlo, e ti rendi conto che fatichi perfino a pensare a te stesso.

Avere un figlio o un fratello handicappato ti insegna che non c’è niente da fare. Che puoi imparare quello che vuoi, ma non serve a niente.
Finisce male comunque, e non ci puoi fare niente.

Non scomoderei la retorica per annunciare urbis et orbis che un bambino o una persona handicappata insegna, e noi abbiamo l’opportunità di imparare.

Quello che ho imparato fa parte della mia storia e ne sono pure un po’ fiera. Ma mi dispiace averlo dovuto fare a spese di mio fratello, di mia madre e di mio padre, e anche a spese mie.
Mio fratello non è più intelligente o percettivo di un altro per definizione.
Non è né felice né infelice per definizione.

Ma mia madre, mio padre e io siamo stati lanciati alla profondità della Fossa delle Marianne.
E io – ammesso e non concesso che tutto questo bell’imparare mi abbia reso più intelligente, accogliente e calda – non avevo nessuna voglia di scendere a undicimila metri sotto il livello del mare; quand’ero piccola, poi.

Se qualcuno è contento di farlo (non dico che l’abbia scritto Valeria Parrella; mica l’ho ancora letto, il libro), a me sembra strano.

Io a tutto quel dolore avrei rinunciato volentieri.