beata te

desertoParecchie persone, da quando ho lasciato il lavoro, hanno commentato «beata te che potevi permettertelo».

Vorrei solo dire che non potevo permettermelo affatto, e che sono proprio stanca di essere scambiata per la signorotta privilegiata che si ricostruisce chirurgicamente un’impossibile verginità sociale.

Non vengo da una famiglia ricca. Mio padre era un impiegato di banca che morì a 49 anni per un tumore alla vescica: la pensione che aveva maturato fino a quel momento non ha mai permesso alla mia famiglia di vivere largamente.

Mia madre ha fatto la casalinga da quando sono nata io, e l’emorragia cerebrale di mio fratello ha reso chiaro che il tempo di lei sarebbe stato completamente ipotecato dall’impegno verso di lui.

Con lo stipendio che prendevo contribuivo anche alla vita di mia madre.

Mio marito fa il ricercatore all’università.

Non abbiamo rendite di nessun genere.

Abbiamo un figlio che comincia a vivere autonomamente le sue relazioni; il che significa che comincia a chiedere denaro – poco, caro – per una pizza, per un kebab o per i biglietti del cinema.

Quando stavo per maturare la decisione forzata di andarmene, ricordo che una collega mi disse: «Beata te che puoi farlo: io ho il mutuo, e in fondo mi mancano pochi anni per la pensione».

Ecco: io non ho neanche mai avuto un mutuo; ne consegue che non ho neanche una casa da mettere a reddito.

E allora, quello che voglio dire è un’altra cosa.
Io ero responsabile.
Io, come giornalista, mi sentivo responsabile.
Anche se non ho mai lavorato con la mano sinistra, ho sempre cercato il modo per essere ragionevolmente fiera di ciò che individualmente facevo, e nel mio lavoro ho sempre impiegato un’enorme passione.

Ma partecipare come testimone impotente (o starnazzante, anche: perché questa è la percezione di te che protesti, all’interno, agli occhi dei colleghi) alla creazione di un universo alternativo introduce pesanti elementi di dissonanza cognitiva.

Stare dentro a un gruppo di persone che crea un universo alternativo – che tu creda o no a quell’universo – costituisce una responsabilità di per sé.

Né, d’altra parte, la «battaglia» interna ha alcun senso, perché serve solo a sentirsi salvi, alternativi.
La «resistenza individuale» è solo un modo per continuare a stare dentro una situazione facendo finta di combatterla, in un doloroso spettacolino che allestiamo per la nostra coscienza.

All’interno paghi prezzi altissimi, perché mostri disagio, e questo tuo disagio mette in questione la pretesa normalità del contesto.

Chi vuole vivere in santa pace il lavoro del giornalista come se fosse un lavoro come gli altri, come se fosse quello di un panettiere; chi vuole poter scrivere solo cose belle dei vigili urbani per farsi cancellare le multe; chi vuole riuscire ad avere in affitto una casa del Comune messa quasi silenziosamente all’asta; chi vuole continuare a ricevere il pagamento degli straordinari anche in regime di blocco degli straordinari; chi ama svolgere mansioni superiori alla sua qualifica per sentirsi importante; chi ama essere sollevato delle responsabilità che avrebbe in ragione della sua qualifica, della quale più che altro ama gli onori; chi vuole essere collaterale al potere; chi viene pagato dalle concessionarie di pubblicità per i redazionali che non potrebbe fare; chi non sa fare il suo lavoro e nel marasma di pezzi venduti e comprati vede la sua incompetenza godere di un comodo ‘effetto nebbia’…
Be’. Tutte queste persone non possono accettare che tu esprima il tuo disagio anche solamente professionale, e lasciamo perdere la questione deontologica e morale.

Il tuo disagio – per quanto privo di risultati e poco molesto – è un atto d’accusa insostenibile.

All’esterno, poi, appari come l’elemento «eccentrico» che testimonia del pluralismo – ahahah – della testata.

Quindi, se combatti finisci per essere – in una – tanto il rompicoglioni interno pazzo e patetico da ignorare o da colpire, quanto, all’esterno, l’esempio vivente dell’apertura pluralistica del giornale in cui lavori.

Questo crea in capo a te una responsabilità che io giudico pesante: consenti al lettore di pensare che l’universo alternativo e parallelo esista davvero, e legittimi la finzione del pluralismo.

Non solo: alimenti la spirale di cinismo che fa dire ai tuoi colleghi – e a te, se resti dentro – che, tanto, stai solo facendo un lavoro per guadagnarti da vivere, e che ca@@o vuoi mai pretendere da te stesso, se non la presa d’atto della realtà?

Io sono stufa di sentirmi dire – dopo tutti i sacrifici economici che sto facendo, con l’angoscia per il futuro che ho, e col dolore per ciò che ho vissuto (per carità: sono viva, e questo è meraviglioso) – che se ne vanno coloro che possono permetterselo.

No.
Se ne vanno quelli che morirebbero se restassero.
Se ne vanno quelli che hanno il coraggio di andarsene e di pagarne il prezzo.

Lo giuro: è un prezzo alto.

E di fare la parte della cogliona idealista – quella a cui mi hanno destinata molti colleghi (i più generosi!) – mi sono rotta le scatole.

Il problema è degli altri; non mio.
Se uno non coglie dissonanza fra l’universo che il suo giornale inventa e crea e l’universo che individualmente da cittadino e lavoratore egli sperimenta, naturalmente non si pone problema.

Uno può non rendersi conto di tutto questo per molti motivi: per stupidità, per comodità, per vigliaccheria, o perché ha trovato condizioni favorevoli alla creazione di una nicchia per sé (ma questa, per la mia esperienza, è una situazione decisamente minoritaria).

Ma che uno qualunque di questi colleghi mi venga a dire «beata te che te ne sei potuta andare» mi sembra molto ingiusto.
Mi sembra offensivo.

Manderò a loro le mie bollette, va’.