il corpo, la parola, il contesto e le pietre
Senza Altrove io avvizzisco come un fiore staccato dal terreno.
Quel che avevo sottovalutato non sono le difficoltà, ma la trasformazione dell’«Altrove» in «Qui», e la nuova natura di «Altrove» che avrebbe assunto il mio «Qui» di allora.
Passo di qui di rado.
Da quando sono in Irlanda, poi, la frenesia delle cose da fare mi sta impedendo di avere per me anche solo mezza giornata.
Oggi posso stare al tavolo e pensare a me perché stanotte non sono stata bene, e non è che adesso stia da dio.
Ma c’è del bello nell’essere indisposti, come con grande garbo dicevano le maestre di una volta, prima che la locuzione «essere indisposto», se declinata al femminile, significasse «ho le mestruazioni».
Deraglio momentaneamente, e seguo il filo di un pensiero collaterale che mi accorgo di non avere mai formalizzato e in realtà ha un suo nesso con ciò di cui voglio dire.
Non mi è mai piaciuta la pratica del ricorso all’eufemismo. «Ho le mie cose» è tra i peggiori. Sì, sono mie; ma non sono «cose».
Mi sembra detestabile anche questo «avere le rosse».
È come quando sento dire «mutandine»: mi sembra sempre che stia parlando un pedofilo.
L’eufemismo va governato.
Non esiste eufemismo che non risenta dell’identità e dell’attitudine della persona che lo pronuncia. È come il turpiloquio.
L’eufemismo non se lo possono permettere tutti, perché a volte diventa più allusivo e triviale di uno sguardo lascivo lanciato dalla persona sbagliata nel momento sbagliato.
Vabbè.
Pensiero tangenziale finito.
Perla di saggezza depositata.
Passo a quello che mi ha fatto aprire questo file.
Una conoscente mi ha detto, un giorno: «Di’ la verità: avevi sottovalutato le difficoltà che avresti potuto incontrare una volta in Irlanda».
«Non so se il problema sia posto correttamente», le ho risposto.
«Di’ la verità», mi ha detto come se nemmeno avessi parlato. «Hai sottovalutato le difficoltà».
Ha piegato la sua testa di lato come avrebbe fatto per rimproverare una bambina con bonaria e affettuosa sufficienza.
Solo che la questione non è la sottovalutazione.
Solo che la ‘soluzione’ non sarebbe stata non partire.
Anzi: non partire avrebbe significato – questo sì – che sottovalutavo la mia condizione di difficoltà e di disagio.
E – solo incidentalmente – noto che la valutazione di questa conoscente è stata un pochino violenta, saccente.
Sono partita dall’Italia come una donna di oltre quarant’anni che aveva deciso di lasciare il lavoro per minimizzare i danni, per non farsi bastonare ancora.
Come una donna che cercava una possibilità per sé, e non si rassegnava.
La mia normale modalità di relazione con me stessa è l’allargamento dei confini.
Non so stare costantemente dentro al recinto, come condizione normale. Ci torno la sera, o quando sono triste, o quando ho bisogno d’affetto. Ma il recinto deve sempre avere una porta che io sono in grado di aprire.
Devo poter uscire, guardare, mettermi alla prova al di fuori del recinto.
Senza Altrove io avvizzisco come un fiore staccato dal terreno.
Quel che avevo sottovalutato non sono le difficoltà, ma la trasformazione dell’«Altrove» in «Qui», e la nuova natura di «Altrove» che avrebbe assunto il mio «Qui» di allora.
Misuro quotidianamente l’abissale differenza di cultura e di storia fra il mio Paese e l’Irlanda, per esempio.
Che parole grosse, eh?
Una lingua diversa non vuol dire solo una lingua diversa.
Non c’è mai niente che possa essere tradotto esattamente.
Con la parola scritta, la prima cosa che facciamo è creare una compatibilità di contesto.
Prendiamo la melassa, per dire.
Se dobbiamo tradurre ‘golden syrup’, o ‘molasses’, automaticamente mettiamo in moto un meccanismo di riduzione a denominatore comune.
O ne abbiamo già parlato prima, creando il contesto affinché la parola ‘melassa’ risultasse giustificata e comprensibile, e non formasse l’immagine mentale di ciò che la melassa è per noi, ovvero una sostanza vischiosa e dolcissima che usiamo più come metafora che come parola indicativa di una cosa effettivamente esistente; oppure troveremo più facile tradurre la parola con ‘zucchero liquido’, ‘sciroppo di zucchero’, o addirittura ‘zucchero’ e basta.
Perché bisogna intendersi.
Nel parlato, la creazione del contesto è enormemente più complicata, perché comporta la considerazione di elementi materiali come la distanza fra un corpo e un altro, il livello e il tono della voce, il tipo di atteggiamento fisico, il modo che si ha di occupare lo spazio.
Tutto questo parla di noi come individui cresciuti dentro un luogo e dentro un tempo.
Condividere il significato di tutto questo, parole a parte, è estremamente difficile, e implica l’esposizione al rischio costante del fraintendimento.
Basta avere, per esempio, idee socialmente diverse sulla benevolenza.
Mi spiego meglio.
Da qualche tempo mi capita di rendermi contro che fra me e le mie amiche coetanee prevale una benevolenza affettuosa che ci porta a sostenerci nelle cose più apparentemente sciocche.
Ci diciamo «sei bella», o «come sei truccata bene», o «questo vestito ti sta bene», o «in questa cosa sei stata bravissima».
Le mie amiche mi dicono che questa cosa la sperimentano anche loro con altre amiche che non abbiamo in comune.
Penso che sia una specie di cifra comunicativa della quale sentiamo il bisogno. Penso che sia un tipo di interazione giustificata dal luogo e dal tempo esterno ed interno alla nostra persona e alle nostre relazioni.
In altri termini: sappiamo che non ci stiamo prendendo in giro; quel che cerchiamo di dire l’una all’altra è quel che cerchiamo di dire ogni giorno a noi stesse.
Sappiamo che quel che diciamo è sincero, e non è un «come ti trovo bene» buttato lì.
Abbiamo pezzi di passato condiviso, e una specie di Zeitgeist, anche.
In un Altrove, dire a una coetanea che oggi è bella può implicare congetture che tu non sai calcolare. Tu lo dici con leggera sincerità, ma viene accolta con sospetto: vuole qualcosa da me? È lesbica? Fa la carina?
È una sciocchezza, ma questo genere di fraintendimenti capita costantemente, quando hai a che fare con un mondo che non è il tuo.
Posso solo immaginare cosa succede a chi arriva in un altro posto con le pezze al culo; il tipo di difficoltà che incontra nella sua ricerca di una possibile sintonia.
La facilità e il dolore con i quali, alla fine, può decidere di lasciar perdere, e di cercare il contatto soltanto con i suoi ‘simili’, quelli con i quali ‘riso’ significa ‘quel’ riso e non ‘vialone nano’.
Ora.
Mi trovo ad avere a che fare con ragazzi poco più che ventenni che sembrano non avere la minima idea del significato della frase ‘stai al tuo posto’.
Non sto dicendo che conoscere il significato di questa frase – e, soprattutto, attenercisi come a me era stato lodevolmente ma dolorosamente insegnato – sia necessariamente una cosa positiva.
Però fatico a considerare positiva la sciocca e arrogante assertività competitiva che occupa il cervello di un ragazzo nato nel pieno della cosiddetta ‘Tigre celtica’.
L’Italia è piena anch’essa di giovinotti arroganti che, per giunta, tentano di umiliarti anche attraverso la fissazione dello standard dell’apparenza estetica che si deve avere in società, o subendone per primi il condizionamento e per questo poi diffondendone la moda per via di ‘auctoritas’.
Per quel poco che capisco, sono due arroganze di tipo diverso, se così posso dire.
È come se la nostra – quella dei ragazzi italiani della fascia odiosa – avesse un suo fondamento nell’appartenenza alla ‘razza padrona’, e questa affondasse le radici in una sorta di ubriacatura da individualismo di stampo modernista-americano, e chiedo veramente scusa per la banalizzazione.
Il fatto è che, per esempio, io non sono attrezzata per dire a uno di questi ragazzetti che tenta di umiliarmi – volendolo o no, chissà; comprendendo il senso di quel che fa o no, chissà – «caro ragazzo, ti va di parlare un attimo?».
Quel comportamento arrogante è considerato apprezzabile e normale, e io non sono in grado di utilizzare le parole e i contenuti di un ipotetico irlandese all’antica che volesse spiegare a questi saputelli il suo punto di vista.
Se fossi capace, potrebbero prendermi in giro, certo; ma avrei parlato una lingua compatibile con la loro.
Non sarebbe stato un ‘prendere o lasciare’.
Sicché, quel che succede è che di equivoco in equivoco nascono situazioni fastidiose come un gatto nei pantaloni.
Io sono una donna solida e strutturata; ho una vita personale; ho un marito di cui sono contenta; ho un figlio che mi piace.
Eppure, l’enorme distesa del campo su cui, come le tane delle talpe, si nascondono le infinite possibilità di equivoco mi crea grandi difficoltà.
Sono un essere umano relazionale (che aggettivo scemo).
Non so affrontare il mondo fendendo le onde con il mio solo corpo, intendo. Nuoto sempre per raggiungere qualcuno – fosse anche un pezzo di me – e mai a vuoto, mai per raggiungere qualcosa che non abbia in sé una dimensione di relazionalità che dia senso all’obiettivo.
Non nuoto senza la compagnia metaforica delle persone che andrò a trovare, o quelle che ho lasciato dall’altra parte.
Essere così mi mette in una condizione di debolezza, agli occhi di coloro che vedono solo la propria individuale grandezza, i propri individuali obiettivi, il loro bisogno di dimostrare ipotetiche doti di leadership.
L’idea di un uomo solo al comando non appartiene alla nostra cultura, nonostante il millennio berlusconiano e il secolo incipiente dei suoi epigoni renziani.
La percepiamo come una forzatura.
Non mi interessa dire se è giusto o sbagliato.
Dico quel che vedo.
L’insofferenza che la ‘mia’ fascia di ultraquarantenni italiani ha, mediamente, per quest’attitudine autocratica appartiene a me e alla mia storia, alla storia e ai perché del mio Paese e della mia generazione.
Ma questa storia e questi perché non interessano quasi mai a nessuno, quando cambi Paese.
Non c’è quasi nessuno che voglia conoscere i tuoi perché.
Qui, poi, funziona che se dici tante cose di te metti in imbarazzo chi ti ascolta: è come se il gene dell’empatia sociale appartenesse al mondo di Angela’s Ashes, e la gente se ne volesse liberare.
Il mio è un giudizio (quasi) gratuito, ovviamente. Però percepisco chiaramente che la via che questo luogo ha scelto per uscire dal suo passato – per vivere il futuro facendo finta che non sia già cominciato? – è la via della negazione del proprio passato.
Lo conosco, è stato un modo anche nostro. Ma è pesante vedere, capire, voler verificare e non poterlo fare perché il tuo punto di vista esterno non interessa, è considerato ininfluente, insignificante.
Parlavo con una ginecologa tedesca che sta qua da tanto tempo, e le dicevo che la Germania – mi sembra: ma chissà quanto banalizzo – ha avuto il coraggio di fare i conti con il suo passato nazista, anche se questo ha significato forse la diffusione di un senso di colpa ingiustificato anche nelle generazioni più giovani e incolpevoli.
Lei mi diceva che adesso nel suo Paese nessuno sa niente del nazismo. I ragazzi non ne hanno praticamente idea. Non sanno chi era Goebbels, Mengele. A volte il passato è un Altrove di cui ci si vuole liberare.
In ogni caso, però, l’Altrove che diventa Qui ha bisogno di un altro Altrove.
Oggi Marco è a Verona.
Abbiamo parlato spesso delle pietre. Delle ‘nostre’ pietre.
«Minchia, che botta», mi ha scritto. «Le pietre. Non è l’Arena o chissà cosa. Sono i dettagli».
È così. Le pietre sono più morbide di un cuore.
E non sono i monumenti. È la sovrapposizione inconsapevole e automatica di un’immagine esterna di per sé insignificante e casuale con un’immagine interna che per motivi misteriosi si è depositata nella memoria e nelle tue fibre, con quella luce, quel colore, quell’odore, quel rumore.
L’esperienza dell’Altrove è cruciale.
Spero che prima o poi riuscirò a scriverne come vorrei.
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