emigrante
Okay.
Mettiamola giù come va messa.
Io sono un’emigrante.
Tornerò, a Verona ho ancora una casa per la quale pago l’affitto; ma sono un’emigrante.
Chi mi guarda, mi vede come un’emigrante.
All’università sto sperimentando emozioni miste.
A volte imparo cose nuove che mi convincono.
A volte imparo cose nuove che mi sembrano idiozie, come questa cosa di una frase un concetto massimo venti parole soggetto verbo complemento.
A volte mi rendo conto che – quando si tratta di questioni generali o tecniche, valide in tutti i Paesi – so più cose degli insegnanti, e ho più esperienza di loro, e ho rifatto decine di prime pagine dopo le 23, e ho rifatto centinaia di volte le pagine perché succedeva qualcosa di nuovo, e ho riportato in italiano centinaia di pezzi scritti in lingue speciali e sconosciute, e ho titolato migliaia di pezzi, disegnato migliaia di pagine, studiato il layout di migliaia di architetture.
Per studiare qui pago, e non ho uno stipendio.
Pago, ma se faccio domande spesso non ottengo risposte.
Mi guardano con un’aria dubbiosa.
Io entro in paranoia, e penso che avere un Proficiency in inglese non serve a un cazzo, e mi la lingua mi si arriccia sulle parole, i neuroni si arrampicano sul versante sbagliato della sintassi, quello senza sporgenze a cui aggrapparsi, e il mio inglese diventa quello di una bambina con le treccine che parla solo l’italiano, e a voce bassa.
I compagni di corso parlano veloci come un treno italiano non è mai andato.
Risalgono Himalaya di parole come se fossero teletrasportati, una parola rovina addosso all’altra in un’orgia di dentali che si accavallano, in una musica che non segue nessun ritmo a cui io mi possa affidare.
Ho chiesto centinaia di volte se possono parlare un pochino più lentamente, per favore.
Ma loro ridono, e non lo fanno.
Non lo fanno loro e non lo fanno gli insegnanti, che – quando lo chiedo – mi prendono (amabilmente? Forse, ma come fai a saperlo quando ti mancano le coordinate per la comprensione degli impliciti sociali e culturali?) in giro.
Mi piacerebbe che le persone fossero più gentili.
Evidentemente, per queste persone è normale che una donna della mia età prenda baracca e burattini, lasci il lavoro, emigri con l’intera famiglia.
Credo che non ci sia stato nessuno, fino ad ora, disposto a rendersi conto che io sono in difficoltà, e che chiedo aiuto.
Ho scritto anche una mail a tutti i compagni di corso, chiedendo loro di darmi una mano, di parlare più lentamente.
Mi hanno risposto in due.
Sono molto competitivi. Se sanno una cosa non la dicono a meno che non ci sia un insegnante a portata di orecchie.
Hanno un alto concetto di sé.
Be’.
Insomma.
Tutto questo per dire che andare a studiare fuori quando non sei un ragazzo si chiama emigrare.
E emigrare è una faccenda molto complessa, in cui entra in gioco tutto.
Sono molto affaticata.
A volte penso che c’è della gente che prende lo stipendio al posto mio e la sera torna a casina sua.
Abbiamo software diversi, forse.
Ma anche l’ingegnere che ha progettato gli irlandesi era un bel tipo, eh.
Vado a fare la studentessa del cazzo.
Un saluto a chi passa per di qua.
Ciao Federica, I know the feeling. Quando facevo il PhD in Inghilterra mi sentivo esattamente come te, eccetto forse che facendolo in una disciplina in cui ne sapevo più di chiunque altro mi sentivo comunque avvantaggiata. Penso che questo sia il tuo punto di forza: i tuoi compagni di corso non hanno probabilmente mai lavorato in una redazione, mentre non c’è nulla o quasi che tu possa imparare, perché questo è già stato il tuo mestiere per anni. Per cui vedrei questa esperienza di Master più come una esplorazione culturale che come un investimento lavorativo, e smetterei subito di sentirmi un’emigrata, perché sei lì a portare soldi a una università, non a prendere uno stipendio da una organizzazione. Non solo non stai rubando lavoro a nessuno, ma ne stai dando a docenti, stai sostanzialmente foraggiando il sistema educativo irlandese. Questo è quello che ho risposto quando un mio allievo particolarmente smart ass e molto antipatico dello University College di Dublino mi ha chiesto per quale motivo fossi andata in Irlanda (intendeva ovviamente: stai rubando lavoro agli irlandesi. Sì, gli irlandesi sono molto razzisti): “Sono qui a fare un lavoro che nessuno di voi è in grado di fare, perché un dipartimento di italiano ha bisogno dei madrelingua. Siete voi ad avere bisogno di me, non io di voi” Non ha più fiatato. E lo stesso vale per te: i corsi di Master non partono se non ci sono allievi, per cui sentiti in posizione di forza. In quanto all’essere competitivi, tieni presente che trovare lavoro come giornalista in Irlanda è tutt’altro che facile, è un bacino molto piccolo, a Dublino ad esempio si conoscono tutti e tutti quelli che ho conosciuto se la tiravano molto, perché arrivare a scrivere su carta è uno status symbol, esattamente come in Italia e come in tutti i paesi provinciali. Londra ad esempio ha un approccio totalmente diverso, essendo enorme e avendo spazio per tutti (ed essendo i londinesi di una pasta molto più fine).
Grazie, Claudia.
Sì, vale la pena di pensare sempre a se stessi dentro la propria storia, invece che tentare di proiettare l’ombra del proprio corpo sul sentiero su cui camminano le storie degli altri.
Neppure io a 45 anni suonati mi sento proprio benissimo in questa avventura che ho voluto del dottorato in Italianistica provenendo da Giurisprudenza (e avendo finora fatto tutt’altro lavoro). Un abbraccio forte.
Ciao, Livio.
Un abbraccio a te.