qual è la soglia?

tito

Un bambino di 12 anni era campione di arrampicata.
Due volte campione italiano e due volte campione mondiale, leggo qui.

Si stava allenando su una parete in Francia, non so per quale gara.
È caduto, ed è finito venti metri più sotto, battendo la testa.
L’hanno recuperato che già era in coma.
Ora è morto.
I genitori hanno deciso di donare i suoi organi.

I giornali lo chiamano «la promessa italiana del free climbing».

Io non so che cos’è un bambino di dodici anni che si arrampica; non so se è una promessa o è ‘già’ qualcosa che non sappiamo definire. Forse a sei anni era una promessa di dodicenne scalatore.

C’è questa cosa che fa rumore dentro la mia testa: arrampicata, arrampicata, arrampicata.
In alto, più su, più staccato da terra.
Moralisticamente, mi avrebbe fatto la stessa impressione una «promessa italiana di immersione» morta durante un allenamento? Il percorso inverso – più sotto, più dentro, più profondo – mi avrebbe colpito allo stesso modo?

Non so niente di questo bambino e dei suoi genitori. Non so con quanta passione Tito si arrampicasse sulle pareti verticali del mondo.
Però il verbo arrampicare mi muove associazioni di cui non sono per niente fiera.
Credo che ci sarà qualcuno, un grande nome, che sui giornali scriverà parole alate su quanto incredibile sia trasferire su un bambino il potere perverso e irrispettoso delle nostre aspirazioni di genitori.

Io non so se voglio dire questo, perché sono sicura che anche quelli che fra noi genitori non portano i figli né ad arrampicare né a fare immersioni in realtà hanno aspettative sui loro figli, e non necessariamente meno pericolose.

Io, per esempio, ho portato mio figlio a lezione di inglese fin da quando frequentava la scuola elementare. Lo volevo io, non lui. Solo che il mio desiderio è considerato legittimo, anche se è stato solo un mio desiderio, e non un desiderio di mio figlio.
Ora è contento, certo, di sapere l’inglese abbastanza bene da poter frequentare un anno di scuola all’estero; e pensa che sapere l’inglese abbastanza bene sia una cosa bella, e parlare con persone di altri Paesi gli piace.

Ma anche Tito, se fosse arrivato a tredici anni e poi a quattordici, e poi a venti, magari sarebbe stato contento di arrampicare bene, meglio di tutti. E anche ora che aveva dodici anni, magari, quello che amava di più al mondo era avere sulla testa solo il cielo e davanti solo la roccia e dietro solo il vuoto.

Forse qualunque nostra aspirazione nuoce, anche, ai nostri figli.
Li spinge, li sprona, li motiva; ma risponde anche a un nostro bisogno di averli simili a noi, e di renderli migliori di noi nel modo in cui a noi piacerebbe o sarebbe piaciuto essere. Li reifica, li rende nostre pertinenze. Decidere per loro, come facciamo quando sono piccoli, contiene necessariamente un’ambivalenza, un’ambiguità.

Non credo che si possa uscire da questa specie di aporia. Non credo che si possa stabilire qual è il limite davanti al quale ha senso fermarsi.
Nessuno può dire perché spingere un figlio a studiare pianoforte sia bene e spingerlo ad arrampicare no.

Lo so: suonare allarga il mondo, ricrea l’anima, trasforma.
Ma anche camminare sulle pareti, forse.
Qualunque cosa, forse.

E così, tutto quello che voglio dire è che è morto un bambino che si arrampicava sulle pareti verticali del mondo, e che la sua morte mi dispiace.