acrobati meritocratici
Leggo su Dagospia una cosa uscita sul Foglio.
Ne cito una porzione.
Gardels, nel suo libro “Intelligent Governance for the 21st Century”, fa anche l’esempio […] «della Cina, dove il regime autocratico riesce a costruire consenso e unità per applicare scelte di lungo termine.
E dove resiste il principio della meritocrazia nella selezione della classe politica: non si arriva ai vertici del Partito comunista senza aver governato per almeno due mandati una provincia grande come l’Italia.
Ma tutto ciò diventa ingiusto e inefficiente perché perseguito a scapito della libertà d’espressione e della contendibilità del potere».
Io son fatta a modo mio, è vero: ma l’idea che uno possa intitolare un suo libro «Una governance intelligente per il 21° secolo» mi crea un po’ di inquietudine…
Più ancora me ne crea quest’affermazione: che la meritocrazia interna al partito comunista cinese possa essere definita «inefficiente» (e «ingiusta»: ma ci torno) per il fatto che è perseguìta «a scapito della libertà d’espressione e della contendibilità del potere».
Uhm.
A me pare che sia molto efficiente, invece; lo è certamente dal punto di vista del partito comunista cinese, e dovrebbe essere certamente considerata efficiente anche dall’intellettuale che vuole spiegarci come intelligentemente governare la politica per tutti gli 86-87 anni a venire di qui al 2100.
Perché essa sia da considerarsi inefficiente, in effetti, l’eminente giornalista e intellettuale americano Nathan Gardels mica lo dice.
Dice solo che è «inefficiente» e «ingiusta».
Ma inefficiente non è, visto che il regime cinese riesce per questa via a ottenere esattamente lo scopo che si prefigge, e cioè – cito Gardels – «costruire consenso e unità per applicare scelte di lungo termine».
Dunque, il problema non è l’«efficienza», a meno che non si consideri l’«efficienza» della meritocrazia una questione legata a contenuti di tipo politico legati a una gerarchia di valori.
La mia supposizione, d’altra parte, è validata dall’aggettivo «ingiusto» che Gardel attribuisce al sistema meritocratico del Pcc.
Direi che questo taglia definitivamente la testa al toro: la meritocrazia in sé non è definibile.
La «meritocrazia» in sé stessa – detto meglio – semplicemente non esiste, almeno fino a quando non diamo le coordinate politiche e ideologiche dell’obiettivo al quale la intendiamo funzionale, non decidiamo che l’obiettivo al quale vogliamo finalizzarla è un obiettivo che consideriamo positivo (che piaccia a Gardel o ai profeti della meritocrazia, perlomeno…), e non stabiliamo l’assenza o l’insignificanza di effetti collaterali che giudichiamo negativamente, come l’asserita «ingiustizia» – concetto assai poco tecnico, direi – della meritocrazia del partito comunista cinese.
In breve: la «meritocrazia» non esiste se non la accettiamo come definita dal contesto all’interno del quale la vogliamo far operare.
La «meritocrazia» è inevitabilmente definita dai rapporti di potere.
Come sarebbe bello che i cantori dell’idolo meritocratico si mettessero il cuore in pace e capissero che l’affermazione dell’esistenza della meritocrazia serve a loro, al loro equilibrio esistenziale, a sventare ogni minaccia che la varietà e il disordine inevitabile del mondo porta al loro microcosmo squadrato e (pretesamente) matematico, e a dare una giustificazione morale all’idea del potere, meglio ancora se il potere di cui si parla è il loro…
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