luogo comune e parole (la sgaggio al mem)
Quello che segue è il testo di ciò che l’associazione Malik, organizzatrice di questa bella manifestazione itinerante – che, quest’anno dedicata al «reinventare il luogo comune», si intitola «I libri aiutano a leggere il mondo» – ha definito una mia «lezione aperta» sul tema «Il luogo comune e l’altrove, lo spazio e le parole».
L’incontro si è tenuto sabato scorso 22 dicembre nella bellissima Mediateca del Mediterraneo, a Cagliari; luogo del quale io non sono riuscita a trovare un sito che non fosse questo. La cosa, in effetti, è singolare.
Ringrazio ancora Malik per avermi invitato, e avermi permesso la gioia di ascoltare il grandissimo Gavino Murgia.
***
1. parole in cammino
Io ho lavorato nei giornali per oltre vent’anni.
Ho pubblicato dei romanzi, dei racconti, e anche un saggio sul giornalismo (Il paese dei buoni e dei cattivi, minimum fax) a cui sono molto legata, perché mi ha messo in condizione di capire che la storia d’amore fra me e il giornalismo era finita, e che le parole che avevo speso per scrivere le storie di finzione erano quelle con cui era nato sotto i miei occhi un nuovo amore.
Il mio lavoro sono state e sono le parole.
Nel mio immaginario, le parole sono come persone.
Hanno una testa, un cuore, sentimenti, desideri.
Come la pelle delle persone, sono un con-fine che segna un limite ma è contemporaneamente luogo necessario di con-tatto con l’Altro da sé.
Per come le immagino io, le parole hanno anche le gambe per muoversi e cambiare senso.
E siccome cambiare senso vuole dire anche cambiare direzione, le mie parole-persone io le immagino respirare dentro uno spazio.
Le mie parole hanno un luogo.
Questa è la premessa su cui poggia ciò di cui voglio dire qui.
Avere un luogo significa avere uno spazio per esistere, un ambito di definizione: in altre parole, avere un luogo è avere un’identità.
Funziona per gli esseri umani, ma funziona anche per le parole-persone.
Proviamo a pensare all’uso giornalistico delle parole.
Leggere sul titolo di un giornale la parola «moderati» mobilita un immaginario che colloca quel termine in uno spazio.
Tutti sappiamo che, in un titolo di giornale, il senso di quella parola prescinde dal significato del termine.
«Moderato», sul giornale, non significa «a».
Significa – dati come «a» e «b» i due estremi di una retta – «non-a e non-b».
Per tradurre in modo brutale, significa «non Vendola» e «non Forza Nuova».
Ma in cosa consista il «moderatismo» di tutto quello che c’è in mezzo, Alemanno e Storace compresi, noi non lo sappiamo, perché non ci viene definito. Ci viene detto che Berlusconi è moderato, che Casini è moderato, che Monti è moderato, ma la definizione non possiamo che ricavarla per negazione.
Dunque, il luogo giornalistico di esistenza della parola-persona «moderato» dà alla parola-persona un’identità sulla quale non abbiamo bisogno, generalmente, di interrogarci.
Affinché il discorso che la ricomprende abbia per noi un senso intellegibile, non è necessario che noi ci soffermiamo a ragionare sul significato della parola, nemmeno quando la parola ne costituisce il centro logico imprescindibile.
Ciò che dà identità alla parola «moderato» usata sul giornale, infatti, è il suo contesto, che è ovviamente comune a tutte le altre parole che ci permettono di comprendere il significato di «moderato» senza interrogarci sulla definizione della parola.
Se – sul giornale – accanto alla parola «moderato» troviamo la parola «Berlusconi», la parola «Casini» e la parola «Monti», noi non abbiamo più bisogno di niente.
Avendo definito il luogo comune a tutte quelle parole, alcune delle quali sono nomi propri, noi abbiamo una comprensione apparentemente chiarissima del significato di quel che stiamo leggendo, e non ci sarà niente che ci potrà fare cambiare idea sul senso che a quella parola noi stiamo attribuendo.
All’interno del luogo comune ogni cosa ha il suo posto, e viene identificata in ragione del suo trovarsi in quel posto. Nel luogo comune niente ci sorprende.
La prima conclusione che mi sembra di poter trarre – banale; ma mi serve a mettere a terra i piedi – è questa:
che a dar senso alle parole è il loro contesto, il loro «luogo comune», e che il senso che in questo quadro le parole acquisiscono è un «senso comune».
2. il dubbio
Ma andiamo un po’ avanti.
«Luogo comune» vuole anche dire «opinione ovvia, semplicistica, scontata, non necessariamente vera».
Per esempio, che le donne siano – facciamo per dire – meno pericolose, o addirittura più pacifiste, degli uomini è un luogo comune. Se da bambini venivamo avvicinati da una donna avevamo meno paura che ci potesse fare del male.
È certamente vero che se una donna avvicina un bambino ci sono meno possibilità che gli sia di nocumento – ovviamente parlo in termini del tutto generali e semplicistici – di quante ce ne sarebbero se ad avvicinare un bambino fosse un uomo.
Ma nessuno può inferire che le donne siano – dato questo – realmente più «buone» o pacifiste degli uomini; e in effetti, questo è uno di quei «luoghi comuni» dei quali è più facile fare un utilizzo ideologico, per esempio in chiave pretesamente femminista.
Il luogo comune, insomma, è uno spazio occupando il quale non possiamo mai essere completamente certi della verità delle parole.
Anche se noi lo costruiamo o ci adattiamo ad esso allo scopo opposto, intorno al luogo comune, in realtà, il dubbio è inevitabile.
Se il luogo comune – quel che abbiamo anche definito contesto, ma abbiamo anche visto essere il luogo dell’incerto – determina il significato delle parole che utilizziamo, come facciamo a essere sicuri che il luogo comune non ci stia tendendo un tranello?
Come possiamo essere certi che la parola «moderato» significhi esattamente «non a e non b»? «Non Vendola e non Forza Nuova»? O anche – addirittura, in senso positivo – Berlusconi, Monti e Casini?
La mia risposta è che – semplicemente – non possiamo.
La mia seconda conclusione è che il luogo comune non ci permette mai di essere completamente certi della verità delle parole, e ci dà solo ed esclusivamente le certezze che siamo disposti ad accettare in virtù di un nostro bisogno di identificazione con la comunità all’interno della quale quel luogo comune trova senso ed efficacia esplicativa.
3. identità e dis-identificazione
A questo punto, spostiamoci un po’ di lato.
Lasciamo le parole dentro il cortile del loro luogo comune – che è allo stesso tempo rassicurante perché dà senso, e pericoloso perché non ci dà le certezze per cui l’abbiamo pensato – e mettiamoci a parlare delle persone (per questa parte sono debitrice al libro di Massimo Recalcati «Elogio dell’inconscio»).
Accade spesso che una persona non tenga in considerazione il proprio desiderio, a volte per il fatto che nemmeno riesce a riconoscerlo, a discriminarlo, a vederlo, a entrarci in contatto.
Domanda: com’è possibile che una persona faccia una cosa tanto strana? Perché può accadere una cosa simile? Non è una cosa stranissima?
Il motivo più frequente, quello di cui credo abbia fatto esperienza chiunque, è che assimilarci alla domanda dell’altro e agire come se la credessimo nostra dà un senso alla nostra vita. In fondo, è la versione soft del servilismo…
Per esempio: si dice a se stessi che si sarà quello che mamma-papà-il fidanzato-la fidanzata, chiunque, vuole che noi siamo, perché in questo modo ci si rende amabili ai loro occhi, si dimostra di meritare il loro affetto (e, tra l’altro, ci si risparmia anche la fatica di trovare motivi nostri, motivi che ci appartengono davvero, per meritare l’affetto delle persone).
Teniamo, per ora, là sullo sfondo, sfumata, l’idea lacaniana che il cedimento sul nostro desiderio (in altri termini: la negazione del nostro desiderio, così da rimanere attaccati all’idea narcisistica di una nostra immagine positiva) produca l’insorgenza di un sintomo nevrotico.
Domandiamoci invece cosa succede quando qualcosa ci costringe a prendere atto del fatto che il nostro desiderio è reale e indistruttibile; quando ci sembra che non ci sia nessun’altra possibilità se non fare o essere quel che in quel momento desideriamo fare o essere.
Succede che ci prendiamo il rischio di una scelta soggettiva, personale, e facciamo un’esperienza decisiva di separazione dalle aspettative dell’altro.
Ci differenziamo.
Ci dis-identifichiamo.
E qui arriviamo alla terza conclusione.
La mia terza conclusione è che quando ci dis-identifichiamo accade che ci identifichiamo per quello che siamo (perlomeno in quel momento).
4. la dis-locazione
Torniamo per un istante alla faccenda del luogo comune, e mettiamo insieme questi primi due pezzetti, che poi torneremo comunque a riprendere.
Il luogo comune – abbiamo detto – è il contesto condiviso ciò che dà alle parole un senso, e cioè un’identità, che le rende (apparentemente) comprensibili.
E cosa succede, allora, quando preleviamo le parole dal contesto, quando portiamo via le persone dal loro luogo comune, o quando togliamo il contesto alle parole?
Qui parlo di me.
Mio nonno andò sedicenne in Argentina a lavorare perché rimase orfano e c’erano altri nove fratelli da mantenere; e poi, nel 1959, si spostò per quattro anni dal sud al nord dell’Italia con la famiglia per un contratto di lavoro.
Per ragioni che fino ad ora mi sono rimaste almeno parzialmente misteriose ma credo di poter collegare anche alla storia familiare di emigrazione, nella mia vita ho sperimentato sempre con grande intensità il potere creativo dello sradicamento, il bisogno della «dis-locazione», la necessità creativa dell’oscillazione fra un Qui e un Altrove.
Questa caratteristica ha comportato per me la curiosa conseguenza che non sono mai riuscita a sentirmi veramente e fino in fondo parte di un organismo collettivo, ma sono sempre stata più a mio agio all’interno di relazioni umane uno-a-uno, o di piccoli gruppi con aspirazioni non identitarie.
Il movimento di pendolarismo esistenziale fra un Luogo Comune e un Altrove consente di fare esperienza dell’«assenza di luogo»: quando ti trovi nel «luogo comune» ti senti appartenente all’Altrove, e quando ti trovi nell’Altrove ti senti appartenente al «luogo comune».
In condizioni non necessariamente simili perlomeno da un punto di vista fattuale, l’immigrato/emigrato è intrinsecamente una «persona fuori posto», un inclassificabile, un à-topos: letteralmente, un «senza luogo» (Dichiaro qui il mio debito verso Abdelmalek Sayad; soprattutto verso il suo «L’immigrazione o i paradossi dell’alterità», ombre corte, 2008).
Mi direte: ma l’immigrato se ne va per cercare una vita migliore.
Sì. Forse. Però qualunque sia la forza cogente esterna della sua motivazione, e potrebbe perfino essere la guerra, non ci è lecito dimenticare che la dislocazione è comunque una scelta alla quale va riconosciuta la caratteristica dell’autodeterminazione, altrimenti finiamo per coltivare l’immagine etnocentrica dell’immigrato che esiste solo ed esclusivamente in riferimento a un problema sociale. Non per caso, gli immigrati sono il target privilegiato del «lavoro sociale».
Ma il lavoro che i servizi sociali svolgono ad apparente beneficio dell’immigrato ha un prezzo molto alto, perché si rivolge solamente a quella parte della persona dis-locata che ha senso per noi: che è la persona che arriva; l’immigrato, appunto. La persona di cui noi cominciamo a percepire l’esistenza solo nel momento in cui oltrepassa la nostra frontiera.
Tuttavia, l’immigrato è costretto a relazionarsi ai servizi sociali alla condizione di dimenticare che, prima di tutto, egli è un e-migrato, uno che da una frontiera – dalla sua – è prima di tutto uscito.
Prima di tutto, egli era un uomo o una donna che aveva un proprio «luogo comune» dal quale è andato via affermando nei fatti la sua capacità di scelta.
Nel suo considerla immigrata e basta, invece, l’etnocentrismo fa della persona dis-locata un personaggio finzionale al quale viene negata la facoltà di scelta.
Quando ci si dis-loca, si affronta un Altrove che non ha da offrirci alcun luogo comune, né per le parole né per le forme esteriori del riconoscimento fra simili.
Se mi sposto in Irlanda, per esempio, il fatto che alcuni uomini abbiano la pancia e portino le magliette dei club di rugby non può in alcun modo guidarmi nel mio tentativo di definire lo «strato» sociale al quale essi ragionevolmente appartengono, nel ricostruirne la possibile storia all’interno del mio immaginario.
D’altra parte, come recita una frase attribuita a Oscar Wilde – ma esattamente così io non l’ho mai trovata – «solo i superficiali non giudicano dalle apparenze»; e casomai la cosa importante è essere disponibili a cambiar giudizio. Ma questa è un’altra storia.
Se quegli uomini con la pancia e la maglietta del club di rugby li incontrassi nel mio «luogo comune» di partenza, potrei pensare che non appartengano all’élite della mia città; se li incontro in un piccolo centro della contea di Limerick, non ho elementi per decodificarli, e – se non do a me stessa del tempo – ci sono buone possibilità che io incorra in un fraintendimento.
In sostanza, fra me e loro non c’è «luogo comune».
E questo che cosa comporta?
La mia quarta conclusione è che la prima e fondamentale conseguenza della dis-locazione anche provvisoria in un Altrove è che devo accettare che ogni persona che incontro e ogni parola-persona in cui mi imbatto hanno un senso che devo costruire attraverso la relazione fra me e loro, fra me e il contesto, fra me e me.
5. la verità di sé nell’altrove
Quando preleviamo le parole (e le persone) dal «luogo comune», o quando togliamo il contesto alle parole, dunque, ciò che nel «luogo comune» era scontato deve essere ricostruito e rinegoziato a partire da basi nuove.
Per comprendere i contorni di una persona dovrò concedermi tempi verosimilmente più lunghi, perché le espressioni della sua empatia o del suo disappunto possono essere per me incomprensibili: troppo tenui, per esempio, per trasmettermi un segnale d’allerta; o troppo intensi, così da spaventarmi immotivatamente.
Una parola la dovrò comprendere in situazioni che sfidano la mia capacità di adattamento a nuove strutture sintattiche, a nuovi moduli espressivi, a nuove etimologie, a nuove gerarchie di senso, a nuovi ordini simbolici, a nuovi suoni.
Il fatto che il greco antico avesse, accanto al singolare e al plurale, anche il numero duale mi dice qualcosa anche dell’idea di mondo a cui quella lingua era funzionale.
Il fatto che in inglese le parole neolatine si siano assunte il compito di concettualizzare le versioni dotte di vocaboli diversamente già presenti nella lingua cambia il mio approccio allo scritto e al parlato inglese, per esempio, perché quante più parole di origine latina troverò tanto più potrò dedurre che il parlante o lo scrivente sia una persona verosimilmente – per capirci – «acculturata».
Nessuno che non sia lingua madre potrà mai appropriarsi della totalità dell’attrezzatura linguistica dell’Altrove in cui si è dis-locato; nessuno che non sia lingua madre potrà costruire un discorso nel quale l’adesione a un registro specifico sia naturale, non faticosa e priva di sbavature.
Nella mia lingua, io so che «andare», «recarsi», «dirigersi», «incamminarsi», «protendersi», «muoversi» hanno significati in qualche caso affini; ma so anche qual è la loro area di sovrapponibilità, e quali sono invece le differenze che giustificano l’uso di un verbo invece che di un altro a seconda del contesto e del registro del mio discorso.
«Recarsi», per esempio, è da verbale di carabinieri. E io lo so così bene che in un romanzo non lo scrivo, a meno che non stia parlando un carabiniere, o un pm.
Se sono in un Altrove, invece, devo «faticare».
Lo sforzo dell’adeguamento continuo alle strutture dell’Altrove, però, produce in chiunque ne faccia esperienza un risultato paradossale: che il parlare e lo scrivere nella lingua di quell’Altrove mettono al mondo una nostra identità di scriventi e parlanti diversa da quella che possedevamo in precedenza.
Quando parlo o scrivo in inglese, per esempio, l’impossibilità di governare la sfumatura con totale possesso del mezzo mi mette in condizione di esprimermi in modo diverso da quello che mi è naturale nella mia lingua madre, nel mio «luogo comune» di partenza.
Ho riscritto in inglese una delle cose di finzione che ho pubblicato, e – a parte il totale cambiamento della struttura sintattica (che è inevitabile e direi normale) – quello che ho scoperto è che cambiavano anche i personaggi, che avevano modi di esprimersi differenti, e mi facevano vedere parti di sé che quando li avevo pensati in italiano io non avevo visto.
E se si tratta di scrivere in inglese per questioni professionali, o di scrivere testi argomentativi e non narrativi, sono molto più diretta, ho meno paura; uso molto meno i condizionali, chiedo meno scusa, dico più frequentemente «voglio», divento più assertiva e fiduciosa.
Cosa voglio dire, con questo?
La mia quinta conclusione è che la dis-locazione in un Altrove consente di entrare in contatto con parti di sé che nella propria lingua madre ancorata al «luogo comune» rimangono silenti e inesplorate.
Se si rimane nel cortile protetto e rischioso del «luogo comune», l’esperienza del cambiamento di sé viene bloccata nell’identità.
Se si ci dis-loca nell’Altrove, nasce la possibilità di dis-identificazione, e dunque di identificazione per quello che siamo, perlomeno in quel momento.
E questo, senza dubbio, accade anche a coloro che chiamiamo immigrati, indipendentemente dalla loro condizione economica, professionale, individuale, familiare, e da qualunque altra loro caratteristica.
6. il nesso fra senso e luogo
Quando si è fatta l’esperienza di una nuova significazione di sé e della propria espressione, cosa succede se o quando il movimento che ho chiamato di pendolarismo esistenziale ci riporta indietro, al cortile protetto e pericoloso del nostro «luogo comune» di partenza?
Accade che il nostro «luogo comune» entra in crisi, e – per rimanere all’esempio che facevamo all’inizio – la parola «moderato» cessa, semplicemente cessa, di significare quello che significava precedentemente, in grazia del suo contesto.
Accade che non accettiamo più con la stessa naturalezza una definizione data per negazione; non riusciamo più a trovare ovvio l’uso di una parola «residuale», solo perché non vogliamo dire «né a né b».
Andiamo in cerca di significati non contestuali; etimologici, quasi; o anche storici. Andiamo in cerca di quello a cui l’Altrove ci ha costretti e poi ci è diventato liscio, ovvio: cerchiamo un senso il più possibile non dipendente dal «luogo comune», e più aderente alla nostra nuova percezione di noi stessi e dei nostri desideri e bisogni espressivi in movimento.
Questo, per chi lavora con le parole, significa che l’oscillazione fra il «luogo comune» e l’Altrove consente un’infiorescenza espressiva che può perfino intimidire ed essere paralizzante.
Realizza un «troppo», un eccesso, una compresenza di sensi che esige una rieducazione di sé; un iniziale bisogno di silenzio, di ritiro in sé stessi, di avarizia di parole; una rinegoziazione del proprio rapporto con le parole.
Quando manca il recinto del «luogo comune», il senso delle nostre parole è un senso nuovo, dis-locato, dis-connesso, dis-identificato.
E il rischio è che molte persone non lo capiscano, perché la cornice che crea il loro senso, e le parole che creano il loro mondo sono ancorate a un luogo e a un’identità.
Nei pezzi che i giornali hanno dedicato alla morte di Isabella Viola nella stazione della metropolitana di Roma (vedi i due post precedenti a questo, su questo blog, ndr), per esempio, si rende molto chiaro il fatto che la creazione di una «storia» nella quale, pur non sapendo, abbiamo inventato una Isabella senza cultura – slegata dai temi politici dell’attualità («non sapeva di spread»: qui cito il Fatto quotidiano), un marito muratore disoccupato bravo, e altri dettagli come la pennellata sul nostro «dramma» borghese «del cappuccino» – è strettamente funzionale alla necessità di creare un «luogo comune» che costruisca un «senso comune» apparentemente condiviso nel quale nessuno si interroga, nessuno dubita, nonostante la natura rischiosa del «luogo comune».
Poiché la dis-locazione rende possibile il cambiamento e la scoperta di porzioni di sé la cui esistenza era rimasta silente, la mia sesta e ultima conclusione è che esistono nessi di estrema importanza fra il senso e il luogo del senso.
I fraintendimenti, credo, non sono mai indipendenti dal fatto che le persone si situano in «luoghi comuni» diversi.
Perché il fraintendimento è anche, e spesso soprattutto, un fatto spaziale.
(E ora, rileggendo, capisco che tutto questo vuol dire per me anche un’altra cosa. Mi si è scolpita dentro una consapevolezza importante: che per recuperare un fraintendimento occorre volerlo ai due estremi del – facciamo – segmento comunicativo; che per capirsi non basta spiegarsi, ma occorre muoversi verso ciò che si intende capire; che se si muove un solo «estremo», ciò di cui si deve prendere atto è che l’altro con cui si vorrebbe comunicare non ha interesse, oppure non riesce, a capire. E quando l’altro non ha interesse o non riesce a capire, ogni storia finisce. Quel che è fatto è fatto, e non c’è più niente da fare per rimediare).
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