la vita è simbolo
Questo pezzo, uscito sul Fatto del 29 novembre, è da manuale.
Parla di Isabella Viola, la donna di 34 anni che è morta mentre andava a lavorare. Usciva di casa prima che facesse chiaro. È morta in una stazione della metropolitana.
Isabella Viola è morta, undici giorni fa da sola nelle turbolente viscere di Roma. Il suo cuore è stato spezzato da una vita difficile. Dovevano essere dieci righe in cronaca (giovane donna colpita da malore muore su una banchina della metro A) di quelle che si leggono di mattina distratti dal dilemma del cappuccino (con o senza schiuma?), e invece la sua si è trasformata in una morte che parla all’Italia. Racconta di un popolo intero, una moltitudine ignota ed ignorata.
Isabella era una di loro [di una umanità che tira tardi fino a sera lavorando e si porta il panino da casa per risparmiare], non sapeva di spread, di Europa, di luci in fondo al tunnel, no, Isabella sapeva solo che a 34 anni doveva conquistarsi la vita a morsi, lo faceva per lei, per il marito, bravo muratore ma disoccupato, e per i suoi quattro figli da crescere. Ogni mattina sveglia alle quattro, la colazione da preparare per i bambini, il pranzo da avviare, una rassettata veloce alla casa e poi la corsa alla fermata dei bus.
Eccetera.
E se invece Isabella avesse saputo che cos’è lo spread? Se Isabella avesse saputo di Europa? La sua storia sarebbe meno drammatica? Avrebbe meno appeal per i lettori?
Perché abbiamo bisogno di eroi da compatire e da esaltare?
Che ne sa, il giornalista, della vita di questa donna?
Perché deve immaginare scenette commoventi alle quali non può aver fatto da testimone diretto?
Che ne sa, che lei preparava la colazione ai bambini? E se invece la preparava il marito, muratore «bravo» ma disoccupato?
E che ne sa che il marito fosse un «bravo» muratore?
Se fosse stato un muratore scadente cambiava qualcosa?
Se Isabella non avesse rassettato la casa prima di prendere l’autobus? Sarebbe stata meno sexy, la sua storia?
Perché, perché, perché, appiattire la complessità di una vita intera con formule che riducono le persone a simbolo di ciò su cui ci fa comodo scatenare la commozione?
Perché non rispettiamo le persone di cui scriviamo?
Perché non riconosciamo loro il diritto di essere state quel che sono state, ciò che noi non possiamo conoscere?
Quello di cui parlo è scritto proprio nelle prime righe del pezzo: Isabella Viola non è Isabella Viola. Isabella Viola ha fatto una morte che «si è trasformata in una morte che parla all’Italia» e «racconta di un popolo intero».
Se non sono simboli noi non li vogliamo.
Via, via.
La tua è una morte normale, non ha sex appeal.
Per placare il drago che sta dentro la pancia dei nostri lettori noi dobbiamo dipingerti così, piccola eroina misera e sfigata.
Dobbiamo dire che non sapevi niente di spread e di Europa; che uscivi da un film neorealista.
Dobbiamo ignorare la complessità dei tuoi pensieri, dobbiamo presumerti semplificata, ridotta a fumetto.
A me sembra che tutto questo non sia affatto giusto. Che questo non sia un modo serio di fare giornalismo, ma un tentativo di scrivere un frammento di letteratura edificante.
Io non posso certamente escludere che l’autore del pezzo, per aver raccolto testimonianze e racconti, sapesse molto bene tutto quello di cui ha scritto.
Se è così, chiedo scusa dal profondo del cuore.
Però di queste testimonianze l’articolo non riferisce traccia, come invece dovrebbe essere lecito aspettarsi se le testimonianze fossero effettivamente state raccolte.
E comunque, guardate anche qui.
Leggete anche qui, dove si parla dell’«omaggio a una regina».
Date un’occhiata anche qui, dove si parla di Isabella come della «principessa di Torvaianica».
E leggete anche qui, dove si dice di un «volto basso a nascondere occhi grintosi e la penombra di un dolce sorriso».
E poi ditemi se il sentimentalismo è lecito o se è una violenza.
Post scriptum. Su Facebook capita che – avendo io commentato sulla bacheca di un ex contatto in modo compendioso ciò che qui ho argomentato un po’ più diffusamente – mi sia stato fatto notare che «certe persone» (io) «si commentano da sole», e che il titolare della bacheca avrebbe fatto meglio a «lasciar perdere» (perché con gli imbecilli come me non c’è speranza?); a «guardare (ma anche no)» il mio post e a passare, come suggerì il Divino Poeta.
Ecco. Quel che fa impressione è che questa gente che ti dà pugni nello stomaco con quest’arietta educata e gentile non ha nemmeno le palle (scusate, oggi va così) di tirar fuori uno straccio di argomento per sostenere la sua tesi: ovvero che il pezzo del Fatto era bello, e che le cose che scrivevo io erano cazzate.
Così, pensavo che alla mia età posso concedermi finalmente un grande privilegio: non avere a che fare con chi non argomenta quel che pensa; mandare al diavolo coloro che non si preoccupano di capire quel che dico.
Fine post scriptum.
Purtroppo di gente che è senza palle, e commenta a favore di un certo sentimentalismo mediatico, perchè ormai fà tutto testo ciò che è mediatico, appariscente, o cool.
Si passa ormai dallo schiavismo moderno, quello passato in secondo piano dall’articolo in questione, all’eroismo da salotto, vedi televisione.
Scusa, ho dimenticato di aggiungere “gente senza palle e ignorante verso la vita”…omissis…. ne abbiamo a bizzeffe.
Certi miei post traboccano di sentimentalismo. E uso tutte le figure retoriche possibili per piegare il testo all’emozione che porto dentro. Ma sono fatti miei, e in un contesto chiuso la scrittura migliore è quella che rimanda al mittente la verbalizzazione del pensiero che gli è proprio. Ciò non vincola la mia opinione sullo stile più efficace per descrivere un fatto di cronaca. Usare l’indicativo, periodare brevemente, frenare l’uso degli avverbi, ridurre all’osso l’aggettivazione. E lo si fa al solo scopo di neutralizzare qualsiasi tentativo di manipolare l’accadimento preconfezionando al lettore un cappotto interpretativo. Eppure la scrittura è comunicazione e la comunicazione è soggettivazione della realtà nel momento stesso che questa viene condivisa. Perciò chi se ne frega se il giornalista che ha esaurito il fatto di cronaca si cimenta nell’abuso di retorica sentimentale con un taglio personalizzato? io sono un inguaribile ottimista: credo nell’autodeterminazione del lettore.
In ogni caso tu non ami gramellini e io sì, adoro il suo modo di raccontare storie e capisco dove finisce la cronaca e inizia il tutto il resto.
E apprezzo anche la tua scrittura, nonostante il punto di vista ogni tanto poco ci accomuni.