parola creatrice
Non ho letto l’intervista che, sul Corriere online, Federico Fubini fa a Mario Monti. Non credo di avere la forza di prendere sul serio ciò che non ha niente di serio, come la pretesa che – in questa situazione – esista una pur minima possibilità di intervento politico dei cittadini, ed è per questo che non l’ho letta.
Ma non mi è sfuggito il titolo del libro che Monti, anche lui, ha pubblicato.
Il titolo è questo: «Le parole e i fatti».
Non ho letto nemmeno il libro, naturalmente; né lo leggerò. E per le stesse ragioni, ma con l’aggiunta di un argomento: ovvero che non ho più alcuna curiosità per le cose su cui non posso avere la minima interferenza; non ho nessun interesse per le operazioni mediatiche.
Eppure, quel titolo significherà qualcosa.
Berlusconi amava – e forse ama tuttora; non so: l’ho perso un po’ di vista e francamente mi va bene così – definire se stesso un «uomo del fare».
L’ideologia del pragmatismo, però, pare sia transitata uguale a se stessa, accompagnata cioè dal medesimo alone di positività indiscussa, anche nelll’apparentemente nuovo ciclo tecnocratico-economicista inaugurato come se fosse una svolta dal governo dell’ex commissario Ue.
«Le parole e i fatti» può solo voler significare, credo, che lui, Monti, è un uomo che fa, agisce, assume responsabilità, decide, seleziona, e – attenzione – parla poco.
L’argomento che sta a fondamento di questa costruzione ideologica invisibile eppure operante in un’enormità di contesti è che parlare non sia un’azione, e per ciò stesso si situi su un livello inferiore.
Non ho intenzione di ribaltare la gerarchia.
So che le parole possono effettivamente essere un ostacolo; più che all’azione, però, credo che a certe condizioni – quando diventano uno schermo di fumo, per esempio – possano essere un ostacolo alla comprensione.
Quello che voglio dire è solo questo. Che a chi sa leggere le parole ma anche gli interstizi fra le lettere che le compongono, e a chi sa ascoltare il tono e le sfumature con cui esse vengono pronunciate, la parola appare per quel che sa essere, indipendentemente dalla volontà e dalla consapevolezza di chi la pronuncia.
Le parole sanno essere il mezzo più efficace per l’anticipazione dei fatti; se senti o leggi – faccio per dire – la locuzione «spending review» prima che la «spending review» venga messa in atto (ammesso che ciò che si sta realizzando sia effettivamente una spending review e non qualcos’altro), tu già capisci molte cose:
1. che l’uso della locuzione inglese implica la necessità di indorare una pillola, e che dunque i fatti saranno aspri più di quanto la parola abbia denunciato apertamente;
2. che il ricorso all’inglese (l’italiano esisterebbe: «revisione/ri-strutturazione della spesa») colloca chi parla o scrive nell’universo di coloro che – per il fatto di conoscere una lingua straniera – stanno su un piano più alto di molti sulle cui vite quotidiane la trasformazione di questa locuzione in azione avrà un effetto; e che, per questo, si tratta di un’operazione con possibili implicazioni classiste;
3. che l’idea di democrazia sottesa all’utilizzo di «spending review» postula l’esistenza di una necessità politica esclusiva (come contrario di inclusiva).
In sostanza, le parole anticipano i fatti anche quando non sono minacce, ovvero parole pronunciate con lo specifico scopo di anticipare i fatti.
Chiamare «ministero del Welfare» il ministero del Lavoro; parlare di ministero dell’Istruzione e della ricerca invece che di ministero della Pubblica istruzione; chiamare «furbetti» i trasgressori di una norma; definire «risorse umane» le persone che lavorano; dare del «premier» al presidente del Consiglio dei ministri; parlare di «governatori» invece che di presidenti di giunte regionali; decidere che è il «decoro» la finalità dell’arredo urbano e della politica di pubblica sicurezza; parlare di «ordine pubblico» quando c’è una manifestazione; definire «prepotenti» coloro che protestano: tutto questo prefigura la realizzazione di azioni molto chiare, certamente univoche, e non lontane nel tempo.
Sembra che l’universo semplificato di questi apparentemente rigorosi «uomini del fare» abbia completamente dimenticato il fatto che le parole scavano trincee nella consapevolezza collettiva e hanno un enorme potere creativo.
Basta pensare a quanto la delegittimazione ideologica del conflitto sociale sia stata ostinatamente accompagnata dall’utilizzo crescente delle locuzioni come «sistema Italia», «azienda Italia», o delle parole «imprenditore» invece che «padrone», «proprietario»; e «consumatore» invece che «cittadino», per esempio.
Quanto alla «creatività» della parola, sembra che i teorici del «fare» non abbiano mai sentito parlare – loro che parlano questo perfetto inglese – di John Langshaw Austin, che riconobbe e descrisse – inizialmente; poi la sua ricerca introdusse ulteriori varianti tassonomiche e assegnò alla parola un potere creativo ancora più forte – la differenza fra enunciati «consta(ta)tivi» (l’auto è blu) e enunciati «performativi» (vietato fumare).
Diffido di chi sostiene di voler dare la primazia ai fatti, sempre e comunque.
Certo che fra l’annuncio di un omicidio e un omicidio c’è un’enorme differenza.
Ma se l’omicidio avviene veramente, nessuno dovrebbe permettersi di sostenere che l’annuncio era meno importante dell’azione: perché se l’annuncio fosse stato preso sul serio, l’azione non ci sarebbe stata, o sarebbe stata diversa.
Non mi pare una conseguenza di poco conto.
E vale anche nel caso in cui la parola non sia un effettivo annuncio.
Se tu «chiami» qualcosa con un nome, quella cosa è definita dal nome che tu le hai dato; la parola ha conferito a quella cosa la sua natura.
Se a un bambino si continua a dire che è irrequieto, che non tace mai, che non sta mai fermo, quel bambino si percepirà irrequieto e incapace di silenzio, e forse non farà mai niente per modificare l’etichetta che le parole gli hanno fatto aderire all’anima.
E più ostinatamente si misconosce il potere creativo della parola, tanto più violenta la parola diventa; proprio nel suo pretendersi inoffensiva e sostanzialmente insignificante e irrilevante ai fini della comprensione dei fatti presenti e futuri, la parola si fa strumento grazie al quale il potere riesce a inoculare – inavvertito – il virus della socializzazione dei contenuti.
La parola del potere ci doma, e in questo rende anche inconsistente ogni opposizione ai fatti che ha prefigurato.
Aveva ragione Metastasio: voce dal sen fuggita più richiamar non vale.
Totalmente d’accordo. Al punto che vado a rileggermi prontamente l’appendice sulla Neolingua che Orwell pose in coda a 1984:-(