mio caro hrm
Grazie a un commento che il suo titolare ha lasciato a un mio post, ho scoperto questo blog, Milodonte’s Skin.
Ci ho passato qualche minuto, mi è piaciuto.
Il post che tiene ora in homepage si intitola «Lettera a un responsabile delle risorse umane».
Non so perché, non sono riuscita a far entrare il mio commento al post. Bachi di WordPress, non so.
Voglio però riportarne un pezzo.
So che esiste chi lo saprà apprezzare.
Ma siccome non è piacevole che ci venga ricordato che, in fondo, siamo delle merde, so anche che la cosa più facile sarà non leggere.
Quel che resta è l’aver vissuto gli eventi alla medesima età, impressionando visi ed emozioni sul negativo delle foto di un tempo. Stessa pellicola, diversa macchina fotografica. Il nostro punto di vista. Ed è quella pellicola che ci riconduce all’affinità perduta solcando la scia delle esperienze personali. I grandi eventi ci uniscono, dopo tutto.
Allora perdonami se ti guardo quasi come un fratello. Se ho la presunzione di vedere con i tuoi occhi i fatti dell’oggi. In fondo siamo figli della stessa generazione. E gli anni del terrorismo, quelli della Juve che vinceva tutto e della Democrazia cristiana che si ergeva a nostra madrina politica, ce li ricordiamo allo stesso modo, con il piglio menefreghista dei bambini a cui la vita non chiede ancora il conto.
Perciò mi sorprende il tuo comportamento. Mi sorprende anche se militi tra le file della controparte. Sono perfettamente consapevole che tu debba trarre il massimo profitto al tavolo della contrattazione, ma usare la menzogna, minacciare il deferimento, invocare maggiore comprensione, irrigidirti a prescindere, fuggire davanti a una promessa, derubricare a piacere qualsiasi incontro sono i sintomi di un modo di essere che non mi appartiene.
E scusami se non comprendo la situazione contingente, se non colgo la posta in gioco, se fatico a mettermi nei tuoi panni, se non sposo le tue richieste mettendo al dito l’anello della fede aziendale.
Il resto è qui.
È importante dichiarare la propria alterità.
Non è vero, come vogliono farci credere, che siamo tutti dalla stessa parte.
Che se guadagni tu guadagno anch’io, o imprenditore.
Che qualunque conflitto sia affrontabile con l’arma ideologica del problem solving, che nega in radice la possibilità dell’esistenza di un conflitto inconciliabile.
Fortunatamente – o purtroppo, chi lo sa – c’è la vita.
La vita insegna che di conflitti inconciliabili ce ne sono tanti, e che non saranno le nostre cravatte, i nostri tacchi, i nostri sorrisi a mezza bocca, la nostra voce bassa e quieta, il camuffamento del nostro potere a rendere negoziabile tutto il reale.
La mia alterità mi prende spesso a calci in culo, e altrettanto di frequente mi dona piccole estasi. D fatto, uno, a una certa età, capisce e accetta quel che è, indipendentemente da quanto gli frutta. Il mio posto di lavoro presso ente pubblico, mi frutta un posto fisso assicurato, ma uno stipendio risibile. Mi dà anche l’opportunità, però, di gestirmi il lavoro, e questo, per me, non è stipendiabile. Lavoro con qiovani donne con esperienze di vita terribili- il mio lavoro, è definito “lavoro social”-. Nei confronti di coloro che hanno responsabilità, che spesso confondono, trasformandole in esercizi di piccolo potere, mi fanno spesso più pena che rabbia. Sono convinto che non possano coabitare con la propria alterità, che si lascino invadere dalla funzione, che la sera, a casa, da soli, con la famiglia, con gli amici, diventino pian piano un “essere incarico”, invece di umano. Ma forse così non è, e le mie fantasie sono solo il frutto di una visione viziata dal privilegio di non essere obbligati a non essere me.