dolore di parole
Piccole cose di linguaggio.
È incredibile come una delle fonti più costanti di malessere «sociale» sia per me l’uso del linguaggio.
E in questo malessere profondo mi sembra di vivere in solitudine, o al più in compagnia di poche persone. Troppo poche per poter dire a me stessa che sono parte di «qualcosa».
Un’amica ha segnalato su Facebook il discorso che la ragazza Adele, studentessa all’università di Parma (città il ricordo del cui clima mi fa venire ancora i brividi), ha tenuto all’inaugurazione dell’anno accademico.
Adele è stata molto brava, perché ha fatto una grande quantità di esempi che rendevano chiara l’univoca direzione antidemocratica (indipendente dai possibili esiti effettivamente «tirannici» che ne potrebbero conseguire ma anche no) lungo la quale questo Paese si è incamminato.
Il malessere associato all’uso delle parole si annuncia sempre, in me, con un senso di disagio fisico: come se avessi bisogno di assestarmi meglio sulla sedia, di sciogliere le spalle.
Non capisco immediatamente cos’è che abbia colpito i miei ricettori sensibili alle parole e ai loro significati.
Credo che nel tempo la mia attitudine a cercare di comprendere le parole abbia finito per sviluppare in me la creazione di una specifica area cerebrale deputata all’individuazione, allo stivaggio, alla rubricazione e alla masticazione semantica delle parole.
Il discorso si può ascoltare qui.
Il titolo del sito di cui ho qui sopra fornito il link è questo:
Adele sfida i potenti […]
È stato qui che ho cominciato a sentire che le spalle e la schiena reagivano.
Perché?, mi sono domandata.
Per questo.
Perché l’idea secondo cui «Adele sfida i potenti» a me non piace.
E una lettura del reale che ripropone il nostro ridicolo bisogno di eroi dietro le cui insegne nasconderci al grido di «noi sì che sappiamo essere alternativi».
Adele non sfida i potenti.
Adele dice cose.
E vede con chiarezza quel che succede. E come nei giochi della Settimana enigmistica connette i puntini fino a che non emerge un quadro d’insieme.
Adele vede il quadro d’insieme. E la «sfida ai potenti» è un modo offensivo di leggere le sue parole.
Un’amica, commentando su Facebook, mi ha fatto giustamente notare che «dietro» Adele c’è dell’altro:
[…] Questa abitudine a iconizzare (ma diciamo pure savianizzare) chi fa qualcosa di intelligente la trovo irritante oltre ogni limite, peraltro è pure offensiva nei suoi confronti, perché pare che la studentessa abbia letto il suo discorso con il secondo fine di diventare un’eroina, mentre è di fatto la portavoce di un movimento corale.
Penso che Claudia Boscolo abbia ragione. E tuttavia mi viene da dire un’altra cosa: che anche se il movimento non ci fosse, o non fosse corale, lo stesso Adele non sarebbe un’eroina che lancia il guanto della sfida a qualcuno.
Io non so capire come mai quando c’è qualcuno che dice quel che sente, che prende sul serio la libertà di parola, che si fa forte del diritto di manifestare le proprie opinioni, c’è sempre qualcuno che dice che sta sfidando un/il potere.
Quest’idea mi rende chiarissimo che siamo tutti abituati al silenzio, che la rassegnazione è l’unico comportamento socialmente accettato.
E chi definisce l’intervento di Adele una «sfida al potere» finisce per legittimare quest’idea: che bisogna tacere, e che chi parla è un eroe, e che chi parla lancia una sfida, e non fa niente di normale, di ovvio.
Mi sembra orrendo.
E mi sembra ancor più orrendo (no: mi sembra «meta-orrendo») che le parole siano così corrotte, piegate e rovesciate da finire per significare un senso di segno opposto a quello per il quale erano state pensate.
Chi scrive che «Adele sfida i potenti» intendeva renderle un tributo, e in realtà l’offende, minimizza la profondità della sua analisi: in definitiva, non la prende sul serio, perché tutto quel che le riconosce è l’intento di sfidare i potenti.
La torsione delle parole mi tormenta.
Sì: ho un sacco di problemi miei, e questo non è di sicuro quello fondamentale. Ma direi che quando cozzo con la mia dimensione di essere sociale, le parole sono ciò che mi fa stare peggio. Il percepire cosa nascondono, e il comprendere che quel senso è in realtà in-significante per coloro che intendono apparentemente, al contrario, farne una bandiera.
Penso che questo – il mio tormento per la torsione delle parole – sia uno dei motivi per cui non riesco a sentirmi minimamente «parente» del Pd, della cosiddetta «sinistra», dell’universo della stampa ortodossa o eterodossa, del mondo degli intellettuali che sparano parole un tanto al chilo per colpire l’immaginazione.
Penso che sia uno dei motivi della mia solitudine; e il senso e la solidità delle radici delle parole utilizzate uno degli indicatori più importanti del valore delle persone; non ha niente a che vedere con la quantità di letture «alte», con la «cultura».
Anzi: ha a che vedere con l’intensità con cui si vive: quando si vive con intensità, le parole acquisiscono fisicità, acquistano materia, e smettono di essere immateriali.
Diventano corpo, e smettono di esere solo voce o solo segno.
«Qual è il senso delle parole che ascolto» è la seconda delle domande che mi faccio quando – qualunque ne sia la ragione – incontro le persone.
La prima ha a che fare con quel che vedo: è «in che modo questa persona occupa lo spazio, quale idea mi sembra voglia dare di sé».
E ora, son qui che da mesi cerco di aggiustarmi sulla sedia o di sciogliere le spalle quando sento la parola «femminicidio».
Comincio ad avere un’idea piuttosto chiara del motivo per cui questa parola, che dovrebbe delimitare un’area di senso che mi appartiene (sinistra, femminismo, donne, valore della diversità), mi fa stare male.
Mi fa star male perché è emigrata in un universo al quale non sento di appartenere: quello dell’ortodossia, del siginificato evocativo, del valore simbolico e sostanzialmente inoffensivo; è entrata nell’emisfero del buon senso, e significa perlopiù «cose» che hanno a che vedere con il mondo delle quattro mura familiari.
È a tal punto diventata «ortodossa», questa parola, che perfino Pierluigi Battista può scriverci un editoriale sul Corriere della Sera.
Se il significato fosse così eversivo, importante, cruciale, Battista non ne potrebbe scrivere.
Forse che non mi piace persuadere le persone? Forse che disprezzi il valore del convincimento?
No.
Ma quando una cosa diventa «mainstream» bisogna rassegnarsi: quella cosa sta significando un contenuto diverso, ammorbidito, annacquato.
Ci può far comodo stringere alleanze tattiche con chi usa quella «cosa» in modo annacquato, certo.
Ma non possiamo mai dimenticare che il senso di quella «cosa» è annacquato per sempre.
“E ora, son qui che da mesi cerco di aggiustarmi sulla sedia o di sciogliere le spalle quando sento la parola «femminicidio».”
Anche a me questa parola mi fa accapponare la pelle, ma non solo perché è entrata nell’ortodossia, ma soprattutto perché è una palese menzogna. Perché la parola “femminicidio” vorrebbe far credere che le donne uccise da ex mariti, o ex fidanzati, siano state uccise in quanto femmine, e non per gelosia patologica, per incapacità di questi uomini di accettare serenamente la separazione!
E in realtà secondo me questo termine finisce quasi per deresponsabilizzare quei singoli uomini violenti e morbosamente gelosi(che per fortuna sono una piccola minoranza), e per criminalizzare l’intero genere maschile, come se tutti gli uomini fossero geneticamente predisposti alla violenza contro le donne in quanto tali. Come se il fatto di avere un pene, e un cromosoma y sia una marchio d’infamia!
Magari esagero, ma dietro il termine “femminicidio” ci intravedo un’ideologia fortemente sessista, che sfrutta un problema che purtroppo esiste davvero(ma che non riguarda certo l’intero genere maschile in quanto tale, ma solo una minoranza degli uomini….e non solo uomini, perché anche le donne uccidono!) con l’intento di creare una discriminazione tra i generi, che penalizzi l’intero genere maschile, e favorisca quello femminile.
No, non sono d’accordo con te.
Le donne sono uccise in quanto donne, su questo non ci piove. Sarà pure sessista, ma non ci piove. È tutt’altro che una menzogna.
Io giudico invece inaccettabile che il senso della parola sia considerato accettabile solo se essa si riferisce alle mura domestiche.
Ci sono molti modi di «uccidere» (anche metaforicamente, ma non mi sfugge per niente la differenza fra un omicidio vero e un omicidio metaforico o sociale) una donna; ma abbiamo deciso di parlare di questa. Perché è semplice, chiara, immediata, non coinvolge mezze tinte. Viva o morta; on-off; bianco o nero.
Scusa, ma se le donne sono uccise in quanto donne(cioè il movende è solo la misoginia), perché si tratta sempre di fidanzate, mogli, ex, ecc… e mai di sconosciute, amiche, madri, sorelle. Se qualcuno uccidesse le donne per misoginia, dovrebbe cercare di ucciderle tutte, perché limitarsi alle fidanzate o mogli che troncano la relazione, o che mettono le corna?
Per me è ovvio che sono omicidi interni alle relazioni, compiuti da uomini incapaci di amare e relazionarsi con l’altro sesso in maniera equilibrata, e soprattutto incapaci di accettare la fine di una storia, o il fatto che l’amore non sia ricambiato, ma la misoginia(ammesso che c’entri qualcosa) è un aspetto del tutto secondario!
Tant’è vero che ci sono anche diversi casi di omicidi passionali tra gay, solo che i giornali non ne parlano, non fanno notizia!
Gli omicidi non sono «passionali», Andrea.
E le donne sono uccise in quanto donne perché vengono considerate proprietà, estensioni di sé.
Non è misoginia: credo che tu abbia forse interpretato a modo tuo il senso di quel che si dice.
Non è come il Ku Klux Klan che vuole ammazzare i neri.
Che poi gli uomini – e un enorme numero di donne, se è per quello – possano non essere capaci di relazioni, nemmeno su questo ci piove. Ma è un’altra cosa.
Vabbè “omicidi passionali”,è una formula che utilizzano i giornalisti per dire appunto omicidi scatenati dalla gelosia!
“E le donne sono uccise in quanto donne perché vengono considerate proprietà, estensioni di sé.”
Appunto, e infatti il termine secondo me più giusto per definire il movente di questi omicidi, è GELOSIA.
E la gelosia è un sentimento di possesso purtroppo molto diffuso, che non riguarda solo gli uomini, o meglio ALCUNI UOMINI, e non è rivolta solo verso le donne. Certo forse statisticamente la gelosia portata a livelli estremi, fino all’omicidio, è purtroppo un problema che per motivi culturali è a prevalenza maschile; le donne gelose arrivano più raramente all’omicidio.
Però sentir parlare in tv(non ricordo bene il programma, forse era PORTA A PORTA) alcune femministe di queste problematiche, come se fosse un problema esclusivamente maschile, come se nel cromosoma Y fosse racchiuso il seme del male e della violenza, come se l’intero genere maschile fosse “infetto”, mentre quello femminile composto esclusivamente da esseri “moralmente superiori”, lo trovo INQUIETANTE
Questi ragionamenti stupidi e generalizzazioni mi fanno un po incavolare!
“Non è misoginia: credo che tu abbia forse interpretato a modo tuo il senso di quel che si dice.
Non è come il Ku Klux Klan che vuole ammazzare i neri”
Può darsi, ma questa è la definizione ufficiale di femminicidio:
“Femminicidio è un neologismo che indica ogni forma di discriminazione e violenza rivolta contro la donna in quanto appartenente al genere femminile.”
Adesso una donna che viene uccisa da un uomo per averlo lasciato, è una donna uccisa “in quanto appartenente al genere femminile”? o per esser diventata “oggetto d’amore” di un uomo morbosamente possessivo e geloso?
Affermare che tutte le donne uccise da uomini, sono uccise “in quanto appartenenti al genere femminile” è una grossa semplificazione/falsificazione, che serve solo a strumentalizzare politicamente il problema, ma non può servire certo a capirlo e prevenirlo. Non è con il semplicismo, o con la mistificazione, che si possono comprendere meglio certi problemi!
Scusa se intervengo ancora, ma non ho capito bene come la pensi tu. Sei d’accordo anche tu, come la maggioranza delle femministe, nel criminalizzare l’intero genere maschile? sei d’accordo col “manicheismo di genere”(cioè genere maschile “geneticamente malvagio”, e genere femminile”geneticamente buono, virtuoso, intelligente”)? Spero proprio di no!
Comunque ho trovato uno scritto molto equilibrato, che esprime abbastanza bene come la penso(non sono bravo con le parole!):
http://www.stateofmind.it/2012/05/femminicidio-psicologia/
Buona serata!
Non criminalizzo nessuno, e certamente mai intere «categorie» di persone.
Eppure, Federica, le parole pesano! Quando si chiede l’aggravante per femminicidio, di fatto si sta dicendo che l’uccisione di una donna è più grave di quella di un uomo. E questo rovescia i termini della discriminazione, perchè un uomo che uccidesse una donna subirebbe una pena maggiore di una donna che uccidesse un uomo!
La violenza, e l’omicidio in particolar modo, è sempre del più forte verso il più debole e in una società che si dica civile non si possono e non si devono avere pene diverse a seconda del sesso del vessato.
Un’altra cosa che poi non mi va giù è la manipolazione dei numeri! Dire che in Italia dall’inizio dell’anno sono state uccise 139 donne non vuol dire niente se non inquadri quel numero all’interno di un riferimento! Quanti uomini sono stati uccisi nello stesso periodo? E quante sono le famiglie in cui la violenza non c’è e la donna è libera di autodeterminarsi? Insomma, se guardi o riporti solo i dati che fanno comodo, ai miei occhi invalidi completamente ogni “tua” (in generale, non tua di Federica) affermazione e tesi. Mi dispiace, ma semplicemente io non mi fido più di te!
Se guardi esclusivamente agli omicidi all’interno della coppia, statisticamente la donna è il soggetto debole e quindi troverai evidenza della violenza “di genere”. Ma se allarghi lo sguardo alla famiglia e focalizzi l’attenzione sui minori come soggetto “debole”, troverai che le donne hanno la loro brava dose di violenta responsabilità, anche più degli uomini! Perchè la violenza non ha genere, ma solo rapporti di forza!
Chiariamoci! Non sto dicendo che non esista violenza contro le donne; che non ci sia discriminazione o vessazione. Sto dicendo che non credo sia un’emergenza nazionale come certi articoli di certo femminismo dipingono e certi politici opportunisti supportano. Può esserlo in altre nazioni? Forse: fammi vedere i numeri! E comunque spiegami come una variazione legislativa in Italia possa alleviare il problema in Cina, perchè io non ci arrivo!
Bisogna fare qualcosa? Certo! Bisogna agire ancora più a fondo sull’educazione, ma quello che vedo putroppo è un arretramento su quel versante! Ma, soprattutto, non è quello che sento chiedere, dalle femministe in primis!
Io, nel mio piccolo, sto dando il mio contributo cercando di educare i miei figli a non essere violenti (ma senza porgere l’altra guancia!) e a rispettare sempre gli altri, i loro orientamenti e le loro opinioni! Ma gli sto anche insegnando a diffidare sempre e per partito preso da chi pretende di avere ragione solo perchè strilla più forte o, peggio ancora, perchè ha il suo bravo gregge di pecoroni al seguito: il fatto che un gregge di pecore segua un pastore non ne farà dei lupi e, soprattutto, non impedirà che vengano regolarmente tosate!
Io ho detto che la parola “femminicidio” mi procura la sensazione di disagio fisico che mi prende ogni volta che percepisco, prima ancora di capire perché, la torsione delle parole, e siete già due a ignorare la mia affermazione di disagio.
Non è strano?
Io ho detto che il “femminicidio” odora di ortodossia, e parla solo di delitti in casa. Ma i modi per uccidere anche socialmente una donna in quanto donna (e – ripeto – non mi sfugge la differenza fra omicidio vero e metaforico) sono molti di più. Penso al mondo del lavoro, per esempio. A tutte le angherie discriminatorie, per esempio.
Sono sempre a disagio con l’ortodossia, ma non ha senso affermare che un delitto nato dalla gelosia non abbia a che vedere con l’idea del possesso di un bene.
Non ha senso ridurre la tipicità di un comportamento di questo tipo ad accidente indipendente dal genere su cui la violenza si esercita.
Ci son donne che uccidono i compagni, eccome. Ma ci son più compagni che uccidono compagne.
A margine, se l’omicidio è connesso in danno di un soggetto più debole dell’omicida – per i
motivi più vari – le aggravanti sono normali.
Infine, questo post riguardava le parole, la studentessa Adele, l’eroismo, il diritto di parola, e anche – ma in quanto parola transitata mell’ortododsia al punto che ne scrive Pierluigi Battista – il “femminicidio”.
Non era in post sul femminicidio, parola e senso su cui ho peraltro detto di essere perplessa.
C’e’ un altro elemento di quel titolo che salta agli occhi. L’uso del nome “Adele,” senza l’indicazione di un cognome, pone il tutto all’interno di una narrazione fantastica. “Adele” e’ -almeno nel contesto di quella narrazione- un personaggio di una fiaba. Che, infatti, “sfida i potenti.”
Mi permetto di intervenire per raccontarvi la mia esperienza, visto che si parla della condizione femminile. Forse rischio di andare fuori tema, ma valuterete voi.
In breve: sono stata per alcuni anni impegnata per un comitato pari opportunità, in un’azienda nella quale il core business veniva considerato da sempre appannaggio maschile. Utilizzando leggi europee, siamo riusciti a inserire un gruppo considerevole di giovani donne in questo lavoro. Bene, passano alcuni (pochi) anni e nasce l’esigenza di riprendere in mano le attività del CPO, in relazione ad alcune problematiche sulla maternità, turni di lavoro, eccetera. E sapete cosa? Le nuove ragazze si tirano fuori e preferiscono eleggere a presidente del comitato un collega maschio (il quale aveva un ruolo che le poteva favorire nell’assegnazione di mansioni più leggere).
Va bene, mi direte, chissà quanti problemi (famiglia, figli, mancanza di tempo,ecc), hanno indotto quelle lavoratrici a fare la scelta… A me però è rimasto il dubbio che a volte ci sia un uso spregiudicato dell’essere donne e mi chiedo, anche, riguardo al tema, che “linguaggio” sociale sia stato espresso in quell’occasione.
Per quanto riguarda il discorso della studentessa di Parma, l’ho appena ascoltato, ed ho avuto la netta impressione (solo un’impressione, quindi potrei anche sbagliarmi…) che sia stata lei a voler rendere a tutti i costi il suo discorso “iconografico” e quindi a trasformarlo da una testimonianza autentica, a una sterile “sfida ai potenti” . Cioè ha iniziato testimoniando un vissuto personale( aumento tasse universitarie, tagli alle borse di studio, lavoretti in nero sottopagati ecc..) e denunciando vari problemi che conosce bene e che sta vivendo in prima persona, per poi deviare il discorso su un piano puramente ideologico, parlando di EUROPA DELL’AUSTERITY(ma che c’entra?i tagli all’università italiana non l’ha mica fatti la Merkel!), TAV, NUCLEARE, gli OGM(ma come, prima si lamenta dei tagli alla ricerca, e poi se la prende con gli OGM, che rappresentano una parte importante della ricerca scientifica, e che finora sono sempre stati penalizzati da tanti politici ignoranti??)ecc..ecc..
Insomma mi sembra proprio che sia stata Adele stessa, a iniziare il suo discorso con una denuncia sincera sui problemi dell’università e dei giovani, per poi deviare su discorsi simbolici “forzati”(che probabilmente gli sono stati “imposti” dal collettivo) , che non c’entrano niente con la sua denuncia iniziale, e che secondo me hanno “depotenziato” quella che poteva essere un’invettiva “forte” e sincera, e l’hanno trasformata in uno sterile comizio.
Per questo poi un discorso così innocuo e retorico, può anche essere intitolato”sfida ai potenti”!
Sono radicalmente in disaccordo con te, e i perché sono nel post.
OK, ho espresso solo il mio parere, le mie impressioni, non pretendo di avere ragione!
Però rimango dell’idea che tutte le divagazioni sulla TAV, sul NUCLEARE, sugli OGM, sull’EUROPA DELL’AUSTERITY, non c’entrano niente, sono discorsi “forzati”, su argomenti che probabilmente quella studentessa non conosce neanche(si vede che è stata indottrinata per bene!)
Se avesse denunciato solo i problemi dell’università, che invece conosce benissimo, e sta vivendo in prima persona, il discorso sarebbe stato molto più efficace. E nessuno l’avrebbe intitolato “sfida ai potenti”