ti scrivo una una lettera, «a» come altrove


Mi sembra strano sentirti dire che hai paura, non mi è mai capitato.
Perché sotto quel «sono abbastanza tranquillo (per ora)» c’è una nuova disponibilità a lasciarsi spaventare, come chi realizza che ci sono cose da proteggere, amori da tutelare, progetti da seguire.
Io sono preoccupata da qui.
Qui dove?, dirai.
Da Listowel, Arms hotel, wifi della Writers’ Week.
Ho scritto al sole il file sul festival italo-irlandese che vedremo se Maire riuscirà a stampare.

Sarà il terremoto, sarà la dislocazione multipla – da Verona a quel posto che non so neanche nominare, e poi adesso qui, e poi di nuovo a Verona, e poi ancora in quel posto che non so neanche nominare, e poi chissà dove altro – sarà la consapevolezza che una fase è finita, ma io mi sento per aria, oscillante.

L’esatta definizione mi viene in inglese: mi sento nowhere.
Questo nowhere è un buco nero che mi sta risucchiando tutte le energie. A tratti ho l’impressione di riuscire a immagazzinare, di ultra-vedere, di piucchesentire: quel che mi serve a scrivere, insomma. A volte prevale la sensazione di essere dis-locata, frammentata, senza una direzione.

Mi è capitato spesso di pensare alla questione del fallimento, in questi giorni.
Ne ho scritto a penna qualcosa su un quadernetto nel sole di St. Stephen’s Green.
Ti cito una frase, so che ti basta a capire:

Glorie private.
Glorie da falliti, insomma. Di chi deve raccontare da sé i suoi trionfi perché non c’è nessuno che gliene tolga l’incomodo trasformando le sue gesta in pubblica leggenda.
Eppure, ambire alla leggenda è la via d’accesso più sicura al fallimento.

Ecco, sto pensando a questo; a cosa è più importante, nella vita.
Sto ristrutturando la gerarchia, e questo terremoto che mi spaventa e pesca nelle paure più antiche di me bambina finisce per assecondare i ritmi della mia metamorfosi faticosa; per questo, mi spaventa ancora di più, perché mi sembra che sia diretto a me, che stia parlando a me.

Sono incerta se fare o no un workshop.
Mi piacerebbe, sento che ne ho bisogno, ma ne ho anche paura.
In questo periodo ho paura di tutto.
Mi sento piccola. Ho sognato che ero bambina, stanotte. Non so perché, mentre ora lo scrivo – senza ricordare assolutamente niente della trama o dell’atmosfera di quel sogno – mi vengono le lacrime.
Non so se fare il workshop «advanced writing» o quello sull’autobiografia, che è un tema che torna e torna e torna dentro di me.

Intanto ti mando questo, sennò non leggi più.

***

Sono seduta nella hall dell’albergo, su una poltrona di velluto rossiccio.
Sto facendo un gioco: indovinare chi, fra tutti quelli che entrano in albergo, si aprono in larghissimi sorrisi, poggiano a terra le valigie e abbracciano le organizzatrici, è uno scrittore e chi no.
E mentre faccio questo gioco piango.

È difficile capire chi è scrittore e chi no.
Se fossimo in Italia avrei una mappa alla quale attingere; li sovrapporrei alla mappa come sul vetro di una finestra interiore, vedrei in quanti punti i loro profili coincidono, e deciderei. Potrei sbagliarmi, ma con un grado di approssimazione accettabile, almeno per i miei fini personali, che non si preoccupano delle statistiche.

Qui è dverso, anche se di alcuni direi che sono proprio assolutamente inderogabilmente scrittori.
Hanno un’aria così distintamente incerta!
Hanno un atteggiamento fisico che riesce a compattare, come una macchina delle discariche, cose che non possono stare insieme: l’idea di essere un dio (una spalla eretta? Uno sguardo over-seduttivo?) e l’idea di avere esagerato, di non valere un cazzo (l’altra spalla bassa? Uno sguardo puntato a terra?).
Un incedere sicuro e malfermo allo stesso tempo; e più gli uomini che le donne, di sicuro.

Sono uomini che a ogni sguardo si domandano se chi li sta guardando li ha riconosciuti, e all’improvviso sono attraversati dal lampo del terrore che gli occhi degli osservatori stiano scannerizzando l’ambiente e le persone in modo casuale e generico, senza alcuno specifico interesse per loro. O – peggio – con un interesse da scrittore.
E allora abbassano gli occhi, dicendo a se stessi e a te che ancora un pochino li guardi perché hai sentito il rumore dei loro pensieri: «oh, certo, io non stavo veramente pensando che mi avessi riconosciuto… Non so neanch’io perché ricambiavo lo sguardo. Hai un bel foulard/computer/qualunquecoso».

Ed ecco Colm Toibìn.
Colpa sua se l’altra sera, quasi presentendo il terremoto, ho pianto tantissimo.
Colpa di uno dei suoi racconti.
Maire se lo segue, se lo cura.
Ha uno zaino pieno di tasche, lui. Uno zaino di pelle.
Ride.
Sa di non essere bello, e non lo fa quel gioco lì, quello del «guarda me o non guarda me?».
Perché nel non sapere se si è dio oppure proprio no c’è anche quella dimensione lì, quella del «forse sono bello, forse il mio corpo ha un suo perché».

Il racconto che mi ha fatto piangere parlava, tangenzialmente, di una storia d’amore gay, e di una madre che muore, e dell’incapacità di dirsi le cose che contano, e del bisogno di fuggire dai genitori quando i genitori sono anziani e non hanno più niente con cui consolarci e noi non abbiamo neanche la forza per consolare noi stessi perché il pensiero della loro morte ci angoscia e ci devasta, e allora vogliamo scappare lontano perché non possiamo reggere tutto quel bisogno di noi, anche se non ce lo dicono, anche se non lo definiscono così, anche se non trovano parole per domandarci niente, ma noi abbiamo bisogno di tutta la nostra forza per badare a noi perché siamo arrivati in quella fase della vita in cui la paura di morire è diventata un fantasma gigante che fa ombra a tutta la nostra stazza, e lo sappiamo che loro sono più vicini di noi a quell’approdo, e che hanno tutti i diritti di bussare al nostro cuore, ma la paura che abbiamo noi ci paralizza e ci proietta lontano, ci spara nel cielo, e ci sentiamo quasi salvi, perché in fondo c’è solo da gestire la paura di cadere e nient’altro, e invece stiamo scappando scappando da mamma e papà, dal loro nuovo odore che non ci dice più niente di quando eravamo bambini, e non c’è nessuna via d’uscita, perché – per citare la copertina di un libro che ho visto da Eason in Irlanda – da questa terra non si esce vivi.

Ci hanno dato il talco, e adesso hanno tutto un altro odore, e hanno occhi spaventati e non sanno più vedere la luce.
Ti dicono che senza di te non sanno stare, e che sei la luce della loro vita ma non è vero, perché tu non basti più, e in fondo non sei mai bastato, perché un figlio non basta mai né quand’è piccolo né quand’è grande.

Non so se è il momento per un workshop sull’autobiografia.