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la fatica di sognare, l’obbligo sociale del cinismo
Poche volte nella mia vita mi sono sentita così umiliata come in una conversazione che ho avuto di recente. Il tono del mio interlocutore era formalmente assai gentile, sicché se io avessi voluto eccepire qualcosa non avrei potuto (questa cosa fa male di per sé), ma l’incedere era incalzante e inquisitorio; a una domanda ne seguiva immediatamente un’altra che si accavallava con la precedente, prima ancora che potessi avere organizzato i miei pensieri per la risposta nella quale immaginavo di essere chiamata a esprimere qualcosa che mi apparteneva, qualcosa che mi facesse entrare in relazione con la persona con cui parlavo.
A ripensarci ora che metto in fila queste parole, direi che forse “umiliazione” non è la parola giusta.
Non si è mai pronti ad accettare la condiscendenza altrui, questo è vero.
Ma per quanto vero questo sia, resta che la vera realtà, il dato di fatto, di quella conversazione non era la sopraffazione – che pure ho percepito, nel modo in cui le cose vengono percepite a pelle; l’unico autentico, forse; o magari è fuorviante, non so – ma l’impossibilità di trovare un codice comunicativo condiviso.
Ci sono persone che hanno un mondo molto strutturato, e faticano ad accettare l’idea che a volte in un edificio si può entrare non solo dalle porte o perfino dalle finestre, ma anche dalle porosità dei muri, per esempio, o in volo dal camino, come Babbo Natale o come un moscerino.
La struttura è una cosa buona, ma a volte diventa una corazza con la quale ci si slancia e si cozza addosso agli altri.
Si fa male a coloro che vengono colpiti, sì, anche se si dicono parole di miele.
Forse, quando si è vestiti con una corazza, invece di usarla per fare del male si potrebbe accettare l’idea che ce ne stiamo servendo per difenderci.
Questo, forse, permetterebbe ancora vicinanza, empatia, calore. Incontrando gli altri si potrebbe tenere in conto la propria fragilità, più che tentare di perforare la fragilità altrui.
Non fa niente, comunque: io continuerò a sognare.
Beninteso, senza riferimento alcuno su chi dove e come hai avuto tale conversazione, sarebbe prezioso averne qui una registrazione “romanzata” esemplificativa, perché mi sembra impossibile che un eloquio possa riuscire a umiliarti senza che tu abbia la forza di reagire.
Mi capita quando penso di avere a che fare con una persona e invece mi trovo di fronte il monoblocco di un ruolo, l’impermeabilità di chi attacca per non voler ammettere di aver bisogno di difendersi.
Tante volte, soprattutto da piccola e da ragazza, mi è successo.
Mio fratello e la sua condizione sono stati il tramite per un enorme numero di umiliazioni, fino a che ho imparato a reagire.
Dapprima come un dovere, costruendo una corazza, irrigidendo le giunture, per non farmi ferire; poi come un’arma.
Poi mi è sembrato di capire – e devo ringraziare l’uomo che ho accanto – che se tenevo conto della mia morbidezza stavo meglio col mondo.
E poi c’è stato mio figlio.
Ecco.
A leggere il tuo post ho pensato che avessimo avuto una discussione io e te, che di persona non ti conosco mica. I difetti che hai elencato sono quelli che ogni tanto, purtroppo, mi tocca riconoscermi. Sempre a frittata già pronta, naturalmente.
nel pensare veloce una cosa dietro l’altra e sopra l’altra, mi chiedevo dove fosse questa corazza. Attaccata alla pelle oppure dislocata, rispetto al corpo? armatura o scudo? è come quando nella relazione fra due persone, ci metto in mezzo un sapere, una conoscenza, una ritualità,….per cui il rapporto non è più diretto, ma mediato. Se vai dal dottore, è chiaro, fra te e lui c’è la scienza medica (…). E’ bello quando questi scudi, questi transiti obbligati dei significati, un po’ saltano, si inceppano…E poi in fondo il patto segreto che ci fa convivere è composto anche dal rispetto di queste strutture, dalla subalternità alternata, dalle dipendenze variabili. E quando viene meno la dipendenza reciproca ed una parte si da nella sua autosufficienza intoccabile, ecco che scatta il disagio, il non sapere dove mettere le mani, come sedersi, come inarcare la schiena. E poi sì, solo la morbidezza ci salva.
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