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tangenzialmente, sul rogo, i rom e il sesso
Ho letto qualcosa su quella vicenda tremenda della sedicenne che ha inventato la storia di uno stupro subito da due ragazzi rom.
Aveva paura di dire alla madre e al padre che aveva fatto l’amore col ragazzo con cui sta.
Contro la violenza – com’è facile quest’etichetta; neutra, veloce, apparentemente incontestabile – la gente perbene del posto ha inscenato una manifestazione.
Contro i rom, altra gente perbene del posto ha dato fuoco a un campo rom, e che importa se era abusivo e se dentro, meno male, non c’era nessuno.
Leggevo su Repubblica, qui, che la famiglia si definisce «gente di chiesa», e che la madre della ragazzina – quando ancora la questione della bugia non era emersa – aveva detto che la figlia aveva giurato alla nonna di arrivare «pura» al matrimonio.
È sempre difficile confessare ai propri genitori che ci si è scoperti abbastanza adulti da poter affrontare un’esperienza come il sesso.
Ma perché non rivendicarlo, mi chiedo.
Perché esistono contesti in cui rivendicare la scoperta autonoma del mondo diventa impossibile?
Tutti abbiamo avuto paura del giudizio dei nostri genitori.
Non tutti, però, ne abbiamo avuta tanta da fingere di esserci paralizzati in un’eterna infanzia.
Non tutti l’abbiamo avuta così forte da dover delegittimare noi stessi fino al punto di inventare l’irruzione di un mondo violento nel nostro mondo di fiaba.
Che idea può avere del sesso, e della relazione fra un uomo e una donna, una ragazza che pensa che quel che ha fatto abbia una parentela con un atto di violenza che il mondo dei cattivi ha fatto ai suoi danni?
Quanto profondo è il bisogno di percepirsi e di essere percepiti buoni?
Quanto facile viene – e perché – collocare il cattivo nel mondo, al di fuori del nostro contesto e del nostro raggio d’azione, e dargli un’identità semplificata?
Se la ragazzina fosse stata mia figlia, credo che la mia grande angoscia, al momento, sarebbe il fatto che non si è fidata abbastanza della mia capacità di accoglierla, di «legittimarla».
Quante volte i genitori, nello sforzo di renderli simili a se stessi, delegittimano i figli.
Non so. La lezione più grande che una donna impara dal figlio – credo – è la centralità della dimensione dell’accoglienza.
Prima di tutto, vieni qui da me a prenderti il calore; io ci sono, qualunque cosa tu abbia fatto. Non mi impedisco di giudicare, ma ascolto le tue ragioni, e vediamo se c’è veramente qualcosa da cui venire fuori, e – se sì – come possiamo farlo.
È tremendo che per protestare (?) contro la violenza si dia fuoco a un campo rom.
E manifestare contro la violenza è solo un modo per sentirsi meglio.
Il problema non è se la manifestazione consegua o no un obiettivo concreto: è quale obiettivo persegua.
Se significa «riprendiamoci le strade» ha senso; se significa «usciamo dall’asfissia delle nostre case con le tapparelle abbassate» ha senso.
Se significa «noi siamo buoni e non tollereremo più i cattivi», un corteo di protesta è analogo all’incendio di un campo rom.
Ora che la frittata fatta, la ragazza – comprensibilmente – si domanda come rimediare.
Non lo so, ragazza.
Prova a cominciare dal tuo diritto di scoprire il tuo corpo. Prova a cominciare dal tuo diritto di sbagliare. Prova a cominciare dalla consapevolezza che non hai niente per cui sentirti in colpa se non la tua ricostruzione dei fatti.
Son d’accordo: non è poco. È molto, al punto che qualcuno ha dato fuoco alle baracche.
Quando si parla della famiglia come cellula costitutiva della società, bisognerebbe non dimenticare che se i suoi confini diventano mura difensive può venircene solo male.
Chiedi: Che idea può avere del sesso, e della relazione fra un uomo e una donna, una ragazza che pensa che quel che ha fatto abbia una parentela con un atto di violenza che il mondo dei cattivi ha fatto ai suoi danni?
Rispondo: L’idea che la nostra cultura mediatica diffonde.
Affermi: Se la ragazzina fosse stata mia figlia, credo che la mia grande angoscia, al momento, sarebbe il fatto che non si è fidata abbastanza della mia capacità di accoglierla, di «legittimarla».
Rispondo: Se un qualsiasi individuo non si fida della capacità di legittimarlo può essere per soli due motivi. Il primo, perché il soggetto legittimante non è riuscito a comunicare la sua eventuale volontà di legittimazione verso l’altro. Il secondo, perché tale legittimazione viene considerata, dal soggetto che la chiede, troppo importante per essere affidata a un soggetto con potere spropositato rispetto al suo.
Logicamente non giustifico comportamenti del genere. Ma comportamenti del genere hanno una logica ferrea, tanto più ferrea quanto più appaiono (come esattamente sono) estremi, incivili, antisociali.
Ma dire “vieni qui a prenderti il calore” può essere la più atroce delle violenze, perché sottende il dire “tu hai bisogno del mio calore, e io te lo posso negare”. L’amore viscerale, che è certamente il più grande, pretende una dose di deformità e sacrificio. Io credo che tra un genitore e un figlio qualsiasi idea di parità sia una follia antibiologica. Il genitore ha creato il figlio. Questo significa che il genitore è biologicamente sovrano, e dimentica questo rapporto solo per effetto delle distrazioni che può prendersi con l’altro genitore, ove presente. La catena si spezza, se si spezza, solo con un atto altrettanto violento di ribellione, che non è altro che la volontà di esercitare il potere genitoriale con un soggetto a venire.
Quanto alle successive violenze generate dalle masse contro la violenza, stendo anch’io un pietoso velo.
Il calore non presuppone la parità, ma il riconoscimento dell’alterità, mi sembra. E la rivendicazione ipotetica della ragazza lo è altrettanto.
Sono d’accordo: esiste un differenziale di potere, ma quando i suoi effetti si manifestano con il ricorso a una bugia così ‘forte’, negativa (non è colpa mia ma del Cattivo), insieme al differenziale di potere opera qualcos’altro che io, soggettivamente, da madre, considero abbia a che fare con l’assenza di riconoscimento-legittimazione dell’alterità di un figlio.
Riconoscersi altri non è mangiarsi o lasciarsi mangiare. È anche dirsi ‘va bene: c’è un problema, io ci sono’.
Chiunque dia un abbraccio ha il potere di negarlo, ma chiunque venga abbracciato ha il potere di sottrarsi all’abbraccio.
Qui è accaduto preventivamente, e di sicuro ci saranno stati motivi per cui accadesse così.
Tangenzialmente, sono certa che anche i figli abbiano un potere sui genitori. Credo sia sensato prendere atto.
Tutto il ragionamento filerebbe liscio, se non fosse per una confusione tra “alterità” è “subordinazione”. Essere diversi è condizione del tutto positiva. Ma essere diversi in quanto subordinati non è propriamente la stessa cosa. In una società dove certi stanno sopra e certi altri sotto, non sul piano delle mansioni, ma su quello dei diritti, non si può parlare di alterità, ma di disparità sociale. Idem dicasi per la sfera genitoriale e famigliare.
Dici che chiunque dia un abbraccio può negarlo. Certo. Si tratta però di capire cosa significhi la negazione di quell’abbraccio, e quanto quell’abbraccio sia stato donato per averne un tornaconto in termini di potere. Se abbraccio qualcuno per poi negargli l’abbraccio, l’abbraccio non esiste, e siamo sempre lì, alla disparità di potere, all’intrinseco paternalismo di molte forme d’amore.
Ovviamente, con tutto questo, non voglio minimamente scalfire il giustissimo giudizio sulla gravità di tali accadimenti. Trovo semplicemente riduttivo il considerarli appannaggio del singolo. Al contrario, tutto un mondo, tutta una cultura, e certamente altrettanto specifiche “condizioni al contorno famigliare” portano verso queste specifiche deviazioni.