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moralismo e violenza: io alzo bandiera bianca
«[…] non dobbiamo venir meno al principio che la pensione si commisura alla speranza di vita».
In quest’intervista pubblicata sul Corriere.it, Elsa Fornero (la più bella ministra del mondo), dice questa cosa e molte altre. Ovviamente, annuncia che si modificherà l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, anche. Ecchessarammai.
La «speranza di vita», dice.
Ecco.
Cos’è la «speranza di vita»?
E di quale vita?
C’è un intollerabile e violento moralismo di fondo in questa nuova ortodossia che tradisce sempre in controluce un senso di rimprovero, un’allusione obliqua all’idea che «abbiamo» vissuto al di sopra delle nostre possibilità, che adesso è arrivato Baffone e non ci possiamo più permettere certi «lussi».
No, non pretendo che il mondo sia giusto.
Purtroppo, è da molto tempo che so che non è possibile.
È che non so rassegnarmi alla violenza con cui ci viene educatamente spiegato che no, così, cari bambini, non si può più andare avanti, questa casa non è un albergo e almeno la vostra cameretta dovreste tenerla in ordine.
Qualche volta la mamma di Montecitorio, di Palazzo Madama o di Palazzo Chigi ce lo chiede piangendo, qualche altra facendo la voce grossa del padrone delle ferriere; altre volte ancora lo chiedono mamme così laide e volgari che fa male al cuore pensarle coinvolte in ciò che è generalmente necessario per fare i bambini, quei loro veri bambini di carne a cui mai avranno detto niente del genere, perché il problema della sostenibilità non esiste per tutti.
A volte, infine, ce lo chiedono con buoni modi, con voci pacate: con la sicurezza della razza padrona, insomma.
Leggiamo qui:
«Qui tocchiamo una anomalia del nostro sistema. La previdenza è stata troppo spesso un ammortizzatore sociale, per cui tutte le riorganizzazioni d’impresa sfociano in prepensionamenti.
Accade perché se guardiamo alla curva delle retribuzioni, lo stipendio sale con l’anzianità mentre in altri Paesi cresce con la produttività e quindi fino all’età della maturità professionale ma poi scende nella fase finale, perché il lavoratore anziano è di regola meno produttivo.
Da noi non è così e questo fa sì che le aziende risolvano il problema mandando i dipendenti più anziani e costosi in prepensionamento. Anche i lavoratori hanno la loro convenienza con la pensione anticipata.
E lo Stato copre questo patto implicito tra aziende e lavoratori anziani a scapito dei giovani.
Se vogliamo fare la riforma del ciclo di vita, è proprio per rompere questo patto: non ce lo possiamo più permettere».
Di fronte ad affermazioni del genere la mia prima domanda è come ti permetti di dire a uomini e donne che hanno trascorso una vita intera al lavoro, vedendo poco e di rado i compagni e i figli, diventati grandi senza avere accanto madri e padri, che devono essere pagati di meno perché – dopo che sono stati spremuti come limoni – «sono meno produttivi»?
La seconda domanda che vorrei fare è questa: ma tu credi davvero che otterrai qualcosa? Credi davvero in quello che dici? In quello che fai? Pensi davvero che il tuo ruolo storico sia quello di aprirci gli occhi, di condurci alla luce?
Pensi davvero di poter fare la «riforma del ciclo di vita»?
Io sarò pessimista e radicale, magari; ma un essere umano che parla così vede se stesso come un dio infallibile e onnipotente, e non tiene in conto la vita degli altri, che pianga oppure no.
E non mi interessa nemmeno se ha ragione o no: semplicemente, vorrei che si ricordasse che fra esseri umani ci si deve rispetto; che gli esseri umani non sono numeri.
Non mi interessa niente della dimensione politica; amen, basta, stop.
Abbiamo perso, e l’entità della sconfitta è integralmente leggibile non solo nelle pacate parole di questa donna, ma perfino nelle lacrime che ella si permette il lusso di effondere davanti alle telecamere come se fosse una qualsiasi ospite di Maria De Filippi o di un programma tv del pomeriggio in cui una signora in età cerca i figli dati in adozione in gioventù.
Mi interessa, invece, guardare alla persona che c’è dietro quelle parole.
È una persona che dice che una persona anziana deve essere pagata di meno perché di regola è meno produttiva.
È una persona che, chiamata a scegliere fra punto di vista dei padroni (oggi va così, non è giornata da sinonimi) e punto di vista dei lavoratori, non ha dubbi: sceglie i padroni.
Oh, no, mi dirà il politico. Sceglie la sostenibilità, non i padroni. Sceglie il futuro.
No.
Sceglie la razza padrona.
Sta parlando di uomini e donne stanchi e curvi sulle loro schiene, gente che la vita ha sfrattato dalla gioventù e la delusione ha espulso dalla terra della speranza.
E sta dicendo loro: potevate pensarci prima, bambini. Mettete in ordine la cameretta, almeno.
E sta scegliendo di dare ai giovani, a coloro che a trent’anni non possono progettare il loro futuro, un nemico d’elezione: le generazioni precedenti.
Cari ragazzi, dice loro: è colpa loro, di questi vecchi scioperati, se voi non trovate lavoro.
Trovano da mangiare, però. Grazie alle pensioni dei genitori trovano da mangiare, e una lavatrice dove lavare i panni, e un aspirapolvere se ne hanno bisogno, perché coi loro soldi non possono comperare granché.
E se vecchi usurpatori consentono la sopravvivenza dei giovani disoccupati, non c’è niente di meglio che sollecitare i giovani a prendersela con chi li ha preceduti. Che far dimenticare la politica, far slittare il piano.
Queste persone indicano i nuovi nemici sociali. Sono i mandanti morali dell’«inimicizia» fra generazioni, di una lettura del mondo semplificata nella quale il conflitto si sposta dalla dimensione politica a quella anagrafica, di modo che chi ci ha guadagnato fino ad ora possa continuare a farlo.
Sono gli assassini della dimensione politica dell’esistenza, perché fingono di non sapere che quel che ora è dipende da rapporti di potere che sono stati e sono.
E sono anche gli assassini della dimensione esistenziale della politica – che piangano o no davanti a una telecamera – perché nel loro cuore le vite di cui si occupano per mandato non hanno occhi, gambe, braccia, sentimenti, storia.
Sono conti che devono tornare.
E se un giorno, a tradimento, hanno un’improvvisa visione apocalittica di quanta difficoltà c’è dentro quelle vite sconfitte, lo stupore è tale che possono pure commuoversi.
Come davanti a uno storpio.
Oh, povero storpio.
Ma lo storpio non piange di sé.
Lo storpio ha un problema più impellente delle lacrime: ha il problema di vivere.
Concordo. A parte gli impotenti partitini della cosidetta sinistra, nessuno o quasi oggi solleva il problema di quale perversione tecnocratica rappresenti questo governo.
Sai benissimo che la “speranza di vita” è un concetto matematico (probabilistico) usato proprio per misurare il “valore” degli esseri umani (pardon, delle “risorse umane”, o ex tali): un altro passaggio della matematizzazione della vita che il capitalismo ha usato come strumento di gestione della forza-lavoro (quindi non degli esseri umani, della loro capacità lavorativa, cioè di essere strumenti di formazione del profitto).
Solo un’osservazione: non chiamarli “razza padrona”, che è un’invenzione giornalistica di Scalfari e Turani. Non sono una razza, e non sono padroni di niente neanche loro. Sono solo tristi e lugubri funzionari del capitale, espressione di quella “rivoluzione manageriale” cominciata negli anni 1930 e perfezionata dal 1980 in poi.
Hai ragione: non sono padroni; sono amministratori, esecutivi, impiegati di concetto con cointeressenze ideologico-economiche.
Io però li vedo così diversi da me da riuscire a immaginarli come appartenenti a una razza diversa da quella degli umani; e poiché hanno scelto da quale parte stare, “razza padrona” mi pareva che potesse andare.
Ma ci penso. Vedo se riesco a trovare qualche definizione più calzante.
“Manager” non mi piace, perché ha un significato socialmente “normale”, accettabile.
Alla domanda “che lavoro fai?” qualcuno potrebbe rispondere “faccio/sono il manager di…”.
Nessuno direbbe mai: “Sono un esponente della razza padrona”.
Grazie per avermi dato l’occasione di pensare di più a questa cosa. Lo farò.
Mi è impossibile aggiungere altre parole a queste. Ormai la perversione per cui l’essere persone non conta più nulla di fronte alla dimensione della produzione (come se la produzione potesse avere un senso senza coloro che producono, coloro che usano) è dominante. Ci aspettano tempi difficili soprattutto per questo, e solo la lucidità – e il continuo sforzo di salvare le relazioni, di essere vicini alle altre persone – potrà aiutarci a sopravvivere. Grazie.
bell’articolo. eppure da razza padrona si comportano, riconoscendosi uno negli sguardi e nei comportamenti dell’altro. non credo alla favola che campare di più significa poter lavorare più a lungo. non ci credo perché lavoro a volte con anziani e dopo una certa soglia li vedo stanchi, smarriti e bisognosi, anche se il “progresso” li terrà in forma accettabile per quindici, venti anni ancora. l’ipocrisia di fondo, il bisogno di giustificare teoricamente un instinto quasi animale mi fa tornare a razza padrona. il conflitto generazionale è un veleno suggerito per distrarre, per distogliere. memento: mai credere alle lacrime, mai. vecchi e giovani sono sempre stati contrapposti, non ci trovo niente di mostruoso. purché alla fine si realizzi un passaggio di consegne, non una assurda competizione tra generazioni che si avventano sulla stessa pagnotta. mi fa pensare a uno Stato indifferente, che guarda i suoi sudditi dall’alto di un balcone, dietro le cortine
Hai ragione, Marco: vecchi e giovani sono sempre stati contrapposti.
Sai, però, dov’è la differenza?
Che prima il conflitto se lo gestivano fra loro; i ministri – tecnici o no – non se ne facevano intermediari. Non proponevano un vincitore.
Non c’è bisogno che ti ricordi, forse, né il 68 né il 77.
Indipendentemente dai risultati che si può ritenere abbiano ottenuto, chi era ragazzo in quegli anni ha animato un movimento che aveva senso politico.
C’è certamente anche un’altra dimensione del conflitto, ovvero quella familiare e privata; quella che ti spinge a individuarti differenziandoti da padre e madre.
Anche questo, certo, è un conflitto. Ma nemmeno qui, credo, un ministro ha mai messo becco. Se non – per l’una e l’altra delle due declinazioni del conflitto – leggi repressive di ordine pubblico.
il velenoso suggerimento del conflitto, capisco quello che dici. è una visione da arena, da pollici versi
😉
Abito a Verona e lavoro in un giornale che si chiama l’Arena.
Una visione «da arena» è definizione curiosa…
La ministro sente i rumori dei tacchi, è notte, c’è il parquet, ha fatto tardi. Sbuffa che saranno le due, domani è in tv, guarda la foto del mare, ma non si riconosce più. Si siede sul fondo del letto e apre lo sportellino del cellulare. C’è l’ultimo messaggio automatico inviato dal presidente dei consigli, buonanotte e coraggio. Si stende all’indietro e si toglie le scarpe, prima una e poi l’altra, aiutandosi con le dita dei piedi. La più piccola fa un lieve schiocco, capita ogni tanto. La ministra guarda il soffitto, dove è riprodotto un tromp d’oleil che ritrae il ciclo di vita, ma che, puntato con un occhio alla volta, mostra una visione cangiante dell’Inferno di Bonaventura. Adora questi giochi, far tornare i conti, porre obiettivi, confessare agli altri le sue certezze ed abbassare gli occhi quando inizia a respirare ammirazione.
Sta passando troppe sere così, si dice. Le rughe le rughe. Sul comodino, fra lavanda ed una retina per capelli non sua, dorme già da giorni una copia dell’ultimo libro della Sgaggio. A far da segnapagina, stabile a pagina 12, un biglietto del treno Milano-Treviso del 1979. Era andata ad una fiera del baratto. Non aveva trovato nulla di interessante.
Adesso si dovrà alzare e togliere le calze e la gonna, e andare in bagno e pisciare e lavarsi il viso. Lo fa da sempre, senza diventare per questo meno produttiva.
Torna a letto in vestaglia. Marrone chiaro con puntolini che riproducono, in piccolo, ritratti di economisti e giocatori di hockey. Si siede sul bordo pensando a qualcosa che le restava da fare. Cerca il pensiero percorrendo con lo sguardo il muro di fronte a lei, ne cerca la fine, l’angolo che lo trasforma in soffitto. Si ricorda. Si abbassa fino a guardare da più vicino i suoi piedi e con un colpo secco delle forbicine toglie via il dito che schiocca. Ora va meglio. Ha i brividi quando sente il sangue scorrerle sulla pianta del piede.
(grazie Federica, sempre, dei pensieri che scrivi forte!)
v
Grazie, Vittorio, per questo racconto meraviglioso surreale.
Mi piace tantissimo.
Il mio libro sul comodino è la pennellata meno credibile!!!
😉
Grazie.
be’, si, intendevo altre arene, o meglio arene di tempi passati 😉 un bravo a vittorio!
Sono d’accordo con te, anch’io mi sono accorto del tentativo di portare il conflitto (e così anche l’equità) a livello generazionale. Sono dei furboni, e la loro retorica ha poco da invidiare a quella di Berlusconi quanto a disonestà e a effetti oppiacei.