«il paese dei…» (una dottoressa mi mette al mio posto)

Questa è una storia nella quale si capisce perché «Il paese dei buoni e dei cattivi» dice delle cose che hanno profondamente senso.
Bum.
Sì.
Proprio così.
Questa storia è uno splendido esempio, e mi va di raccontarla.

Parto da qui: io ho scritto un libro nel quale in estrema sintesi contesto la semplificazione dualistica bene-male come coppia di concetti capace di esaurire e spiegare la realtà e di mettere in moto azioni autenticamente politiche e non semplicemente dichiarativo-identitarie.

Ho scritto che il giornalismo è l’agenzia principale della polarizzazione del mondo in opposte tifoserie (buoni/cattivi).

Ho scritto che il «brand» è una delle «scorciatoie» commercial-identitarie che il giornalismo che si fa show percorre per fare manutenzione della comunità di lettori che vuole/sa/pretende di render omogenea.

Ho scritto che ciò che va sotto il nome di «meritocrazia», guardato da vicino, rivela una natura decisamente meno incontestabile e pacifica di quanto ci fa piacere ritenere, e che «meritocrazia» – contrapponendosi all’egualitarismo – è un concetto sul quale avrebbe senso che la sinistra si interrogasse.

Bene.
Poi mi capita di leggere che il Corriere della Sera presenta con le fanfare l’iniziativa delle grandi inchieste di Milena Gabanelli e del suo gruppo.
E allora scrivo un post dicendo una cosa alla quale ora vorrei aggiungere una seconda considerazione.

La cosa che dicevo nel post, qui, era questa:

[…] ma veramente, dentro il Corriere della Sera, assunto a libro paga, nessuno dei giornalisti è in grado di svolgere un lavoro d’inchiesta come quello del marchio in franchising Gabanelli (&figli)?
Veramente c’è bisogno di ricorrere a uno di quei «service» che fino a un paio di contratti nazionali fa erano vietati?

Qui emerge in tutta la sua enormità di marketing la questione del «brand».
Il «brand» Gabanelli tira, evidentemente.
A tal punto da umiliare chi, al Corriere, ha competenze e passione sufficienti a fare «team», oh yeah.

La cosa che voglio aggiungere è questa: se il valore aggiunto – poniamo – dei giornalisti che lavorano insieme al gruppo di Milena Gabanelli è la – attenzione – libertà (dalle pressioni, dai potenti…), quale conseguenza io ne posso mai trarre?
Questa: che se ricorre a giornalisti che portano il valore aggiunto della loro «libertà», il Corriere rischia implicitamente di sostenere che i suoi giornalisti, coloro che dalla testata sono dipendenti, liberi non sono.
Mi pare un non-detto di qualche peso, anche perché – se così veramente fosse – non si capisce bene il motivo per il quale il Corriere stesso, appaltando la verità al gruppo Gabanelli, affronti il pericolo di farci sapere che al suo interno non esistono giornalisti abbastanza (bravi o) liberi.

E poi leggo, qui, di questa replica.
Allora vado a vedere l’inchiesta che di questa replica sta alla base.
E leggo l’attacco:

Paolo Macchiarini, il primo chirurgo al mondo in grado di effettuare un trapianto di trachea bioingegnerizzata, ci conferma che in Italia essere i numeri uno non basta, anzi complica tutto.

E scrivo un altro post.
Nel quale dico

Non ho alcun dubbio sull’eccellenza del professore delle cui sorti accademico-professionali si occupa l’inchiesta.

E ancora:

[…] ho già ammesso che il professor Macchiarini ha un grado di eccellenza spaziale.

E poi anche:

non ho alcun problema ad ammettere che il professore sia il numero uno.

Però non rinunciavo ugualmente a domandarmi

[…] quale tipo di specifica competenza professionale possiede un giornalista – anche quando, ipoteticamente, laureato in medicina, per giudicare del merito di un medico?

E poi:

Non sarebbe stato sufficiente che un giornalista si occupasse della vicenda evidenziandone i possibili snodi critici, senza decidere in proprio [?].

E poi:

Ma chi sono io giornalista per giudicare?

E, quanto alla «meritocrazia» della comunità scientifica internazionale (la comunità che certifica l’eccellenza), scrivevo nel post:

La comunità scientifica.
Ma che senso ha parlare di un medico come di un «numero uno»?
Che idea di mondo è?
Chi fa le graduatorie?
Perché io giornalista non posso tenere una distanza critica?

Arriva un commento.
È di un medico.
In sintesi, dice che il professor Macchiarini (di cui l’inchiesta tratta) è senza dubbio numero uno, perché il suo nome è riconosciuto in questa posizione dalla comunità scientifica internazionale, e i suoi risultati parlano da soli.
Che un giornalista aveva cominciato a occuparsi della storia di «immeritocrazia» del professore, ma

Quando [alla giornalista del gruppo di Milena Gabanelli] ho fatto sapere le falsità che un altro giornalista (Gaggioli, del Corriere Fiorentino) aveva scritto su Macchiarini si è indignata e ha preso particolarmente a cuore la cosa. Io ci ho parlato più volte e a lungo e ho avuto l’impressione di una giornalista che si prende un impegno civile.

Non basta:

La Giannini si è informata bene prima di scrivere il pezzo: lei si è informata prima di criticarla?

Dopo che le ho risposto che

non dico nulla del prestigio del professor Macchiarini, e ci mancherebbe altro; né mi sono permessa di sostenere in alcun modo che la mia collega si sia informata poco, o distrattamente, o in un modo meno che scrupoloso; cosa che a quanto pare lei invece legge nel post,

le dico che tutto quel che mi interessava dire era un giornalista può dire quel che intende dire senza bisogno di schierarsi, e che – quanto alla meritocrazia e alla comunità scientifica – la rimandavo alla lettura del capitolo del mio libro dedicato alla meritocrazia.

Ma non finisce così.
Mi raggiungono altre centinaia di parole.
L’interlocutrice mi dice che «dietro questa storia c’è molto di più di quel che compare nell’articolo»:

c’è una spartizione mafiosa del potere nelle Università, c’è la massoneria, c’è la manipolazione dell’informazione da parte di giornalisti compiacenti che pubblicano falsità e non pubblicano le smentite se non costretti.

E poi, l’apoteosi.

Io preferisco gli schierati (a ragion veduta) agli “equilibrati” incapaci di prendere una posizione decisa e di scaldarsi davanti a un’ingiustizia.

Ed ecco il mondo tagliato in due: buoni e cattivi.
Gli schierati e i vili.

Per essere una che inneggia alla “distanza critica” il suo evidente disprezzo/astio contro i giornalisti di Report suona un po’ sospetto. Non è che lei è prevenuta?

A me, questo pare un capolavoro.
Ho spiegato bene, e più volte, che sul prestigio e sul merito del professor Macchiarini non mi sogno nemmeno lontanamente di avanzare la benché minima riserva.
Ho detto ben chiaro che non dico che la giornalista del gruppo di Milena Gabanelli si sia documentata poco, male, o a tesi.
Ho solo detto che questo tipo di giornalismo affetta in due il mondo, e colloca di qua i buoni e di là – con me, evidentemente; a far compagnia a quelli come me che sono «prevenuti» – i cattivi.

Non so dove si potesse ricavare la nozione che io abbia «astio» o «disprezzo» nei confronti di Report, ma alla mia contraddittrice va bene così: se io ho esposto una tesi critica verso un frammento metodologico di quel che leggo, e se l’ho fatto da giornalista, da «tecnica», diciamo così, io esprimo «disprezzo», «astio» (l’«invidia» di ascendenza savianiana? Chissà), e sono «prevenuta».

La mia interlocutrice non è nemmeno sfiorata dal dubbio che anch’io sappia quel che sto dicendo, che stia sostenendo una posizione che non ha niente a che vedere con la bipartizione del mondo in buoni e cattivi alla quale lei sembra credere (posso sbagliare, ma l’evidenza mi parrebbe deporre in questo senso).

E poi, con una gentilezza sublime, l’interlocutrice mi dice che non si sogna nemmeno di spendere soldi per me, che sono una cattiva…

Infine, per leggere il suo saggio dovrei andare in libreria e spendere dei soldi (che non so se sarebbero ben spesi) mentre lei può gratuitamente andare sul Web e consultare i siti che le ho suggerito, più fare una piccola ricerca su Macchiarini, e capire perché io mi appassiono tanto alla cosa.

Spendere soldi è male.
Tanto più che non sa se sono ben spesi.
Potrei aver scritto un bel cumulo di cazzate e volermi fare la casa alle Seychelles a spese dei miei incauti stolti lettori, mio dio; e non pretenderò mica che la dottoressa esca di casa, vada in libreria, spenda dei soldi che potrebbe più utilmente spendere per cause assai più meritorie.
Se io non fossi così pelandrona, invece, potrei documentarmi sulla verità delle cose che la mia interlocutrice sostiene semplicemente andando sul web, a costo zero, e senza uscire di casa.

Ora.
Io trovo sconvolgente che esprimere una critica metodologica – giusta o sbagliata, che importa: se ne può discutere serenamente, no? – diventi istantaneamente l’occasione per ascrivere colui (colei, nel mio caso) che critica alla fazione di chi ci fa comodo, indipendentemente dal contenuto delle parole che quel critico ha scritto o pronunciato.

Trovo sconvolgente che per esprimere una critica metodologica mi si chieda di «documentarmi» su contenuti nel merito dei quali non sono mai entrata, dandoli anzi per pacificamente acquisiti esattamente nel modo in cui essi mi sono stati presentati.

Trovo sconvolgente che invece di tenere in conto le cose che dico, mi si replichi che comprare il mio saggio può non valere il denaro che si spende.
In sostanza, trovo sconvolgente che per replicare a me che accetto senza discutere il punto che il professore è eccellente e la giornalista si è documentata come andava fatto e dico solo che il mondo diviso in due fazioni mi sembra ridicolmente poco complesso, si usi l’arma del disprezzo.

Direi che non c’è – finora – esempio nel quale più chiaramente rifulga la legittimità dell’analisi che conduco nel «Paese dei buoni e dei cattivi».
Chi non è con me è contro di me.
E io, per definizione, sono dalla parte del giusto.
E siccome sono dalla parte del giusto, ti insulto pure (sei prevenuta, e il tuo libro magari non vale nemmeno i soldi che spenderei), e se poi tu t’arrabbi, oh, beh, guarda che sei tu che grondi «disprezzo».

Penso che questo Paese sia veramente all’emergenza.
Penso che sia irrecuperabile.
Penso che averci reso tifoserie e non più cittadini sia un processo dal quale non torneremo indietro tanto facilmente.
Penso che questo Paese sia morto.
Finito.