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donne, corpi, vita e morte (riprendiamoci la disperazione)
Sono stata al convegno nazionale del Centro milanese di terapia della famiglia, a Torino. È stata un’esperienza interessante, e con una coda molto curiosa di cui dico in fondo.
Il tema del convegno era l’esame delle connessioni fra terapia sistemica e questioni di genere.
Molte relazioni sono state estremamente interessanti, anche se mi è sembrato incredibilmente significativo che in due giorni di lavori concentrati sui nessi fra terapia e genere nessuno abbia focalizzato la sua attenzione sulla questione cruciale della maternità, che pure parrebbe definire la differenza più macroscopica, profonda e radicale fra un uomo e una donna.
Spero che le relazioni dei docenti vengano rese disponibili da qualche parte online. Mi piacerebbe rileggerne alcune, rifletterci su, sentirmi in relazione con quelle parole anche da casa mia.
Una delle relazioni prevedeva la proiezione del notissimo documentario «Il corpo delle donne» (qui il sito, qui il documentario).
L’ho visto più di una volta. Ogni volta mi impressiona, mi destabilizza.
È inquietante, mostruoso.
Eppure, c’è qualcosa che non mi torna.
Nella lettura di quelle immagini di carni femminili esibite e messe a disposizione dell’immaginario di chi guarda, io percepisco una vena di ortodossia che mi si è resa chiara solamente ieri, a quel convegno a cui ho ho avuto il piacere di poter partecipare.
Qual è, dunque, la lettura maggioritaria di quel filmato agghiacciante?
Che l’uso del corpo femminile è prigioniero degli stereotipi.
Non solo: che è prigioniero degli stereotipi maschili.
Non solo: che è prigioniero degli stereotipi maschili che certificano la sostanziale minorità delle donne.
Io non dico che tutto questo non ci sia.
C’è. Non posso pensare che tutta quella pelle e tutta quella carne e tutta quella plastica non abbiano a che vedere con l’umiliazione femminile e con la relazione fra maschi e femmine.
Però.
Però io penso che ci sia dell’altro.
In primo luogo, non sono affatto convinta che sottraendo qui e ora alla vista quei corpi – comunque li si voglia definire: perfetti, alterati o mostruosi – noi, che li abbiamo visti per anni, otterremo il risultato di fare del corpo delle donne un luogo rispettato e rispettabile.
Certamente non riesco ad augurarmi che tutte queste strane donne continuino a passare ossessivamente in tv, nella pubblicità e sui giornali.
Temo, però, che togliendo i loro corpi nudi e standard dalla tv, dalla pubblicità e dai giornali, noi ne faremmo un luogo torbido e segreto.
Anzi: secretato, ri-privatizzato, annesso nuovamente all’area del tabù.
Può darsi che sia questo ciò di cui c’è bisogno;
Però non ne sono sicura, anche se so che quell’esibizione di carne inquieta anche me.
Credo che, oltre che su ciò che viene esposto, bisognerebbe «lavorare» anche sugli occhi di chi guarda; sul sistema di riferimento dei proprietari degli occhi che guardano; sul sistema per così dire «immunitario» dei proprietari degli occhi che guardano.
In secondo luogo, mi domando una cosa.
Perché ci facciamo sfuggire il fatto che rifacendosi, gonfiando labbra e seno, appiattendo pance e gambe e incurvando nasi le donne non compiono solamente un tentativo di piacere di più (a se stesse o agli uomini? Non lo so: accetto volentieri l’idea che la plastica attesti una subalternità all’immaginario maschile, ma sono pronta a rifletterci un altro po’, perché anche qui secondo me c’è di più)?
Nella mia opinione, mettersi nelle mani del chirurgo plastico rappresenta anche un tentativo di sfuggire al dolore del disfacimento del proprio corpo e, conseguentemente, una modalità peculiare (e di moda) di fare i conti con la questione della propria morte annunciata dal deterioramento fisico.
Credo che non si possa prescindere da questo fatto.
Genere, certo. E chi ne nega la centralità? Non potrei mai. Così come non potrei mai negare il fatto che è a causa del loro potere di generare la vita che le donne sono state tenute sotto scacco, e non solo storicamente.
Ma proprio per il legame che c’è con la generazione della vita, con il contenimento (possibile, non necessariamente agito, ma necessariamente femminile) di una vita altrui, io non posso non vedere la chirurgia plastica come (anche) l’altro estremo del segmento che parte dalla vita: l’estremo della morte, insomma.
È chiaro che questa plastificazione e quest’esibizione della plastificazione «accadono» alle femmine (anche se in via non esclusiva), e questo ha un senso che non sta solo nella questione della vita e della morte, ma anche nella subalternità e nell’oggettivazione.
Ma è anche vero che se una società sente il bisogno di essere rassicurata dalla morte, dall’incombere del disfacimento, e di essere protetta in modo anche fittizio dalla propria vulnerabilità e dalla consapevolezza della caducità e della morte, beh, a me sembra – oserei quasi dire – normale che quella rassicurazione venga collettivamente richiesta a chi è deputato a dare la vita: alle donne, insomma.
Strumentalizzate, certo: ma non solo come oggetti sessuali.
Anche come oggetti transizionali di rassicurazione.
Chiunque abbia lasciato spazio nei suoi occhi e nel suo cuore all’ambiguo osceno dolore che prende origine come uno tsunami dal sisma del «deterioramento» della propria madre dovrebbe saperlo bene.
Who will love me?, si domanda Alice Sebold.
Chi mi amerà ancora, quando lei non ci sarà più?
È lei che mi deve amare. E ora che è vecchia, come faccio?
La vorresti vedere di nuovo a quarant’anni, piena di forza, di coraggio.
Piena della felicità di te. Non occupata dalla paura per la sua morte.
Non la puoi perdonare, la vecchiaia di tua madre.
È (forse) il peggiore dei tradimenti, il più drammatico degli abbandoni. E la sua naturalità non toglie niente al suo orrore.
Avrebbe senso, forse, anche domandarsi perché sentiamo il bisogno di proteggerci dalla paura della morte; ma questa domanda è troppo grande per me, che della morte sento il bisogno di difendermi da quando ho il primo ricordo della mia vita.
So che ci sono società in cui la morte non fa così paura.
E so che la religione potrebbe aiutare; ma non sono in condizione di accedere alla stanza della religione. Sono capace di percepire il sacro, ma nel sacro non so vedere alcuna potenzialità consolatoria che non transiti attraverso l’intensità della vitalità; attraverso il contrario della morte, insomma.
Volevo proprio dirla, questa cosa, perché comincio a sentirmi molto infastidita dall’ortodossia che pretende di inclinarsi a sinistra, flettendo qualunque contenuto.
Mi irrita la considerazione che i fenomeni vengano sempre spiegati attraverso la lente che ne consente la lettura più immediatamente percepibile, quella meno complessa, molteplice e sfaccettata.
Questo modo di utilizzare il pensiero mi riempie di sfiducia e di angoscia.
Vedere puntualmente messa a disposizione sul vassoio dell’ortodossia di sinistra la spiegazione più ovvia mi deprime, perché è una delle testimonianze più chiare del fatto che i fornitori di immaginario dell’universo di sinistra (se esiste) sono gli stessi hard discount da cui trae alimento l’immaginario berlusconiano: quello della linearità, della semplicità, della banalizzazione; della logica binaria; del sì-no. Del buono-cattivo.
A volte ce n’è bisogno, ma non necessariamente sempre.
Se ho freddo e uno mi dà una copertina di pile a me va bene.
Ma se invece di stare seduta su un divano ho bisogno di camminare nella neve, quel che mi serve sono buoni stivali, e un intero kit di abbigliamento antifreddo.
Fermarsi al «corpo delle donne» è accontentarsi della coperta di pile: riscalda, ma non crea alcuna condizione che possa facilitare la nostra necessità di muoverci nella tormenta.
Mi sono stancata delle copertine di pile.
Di Saviano, di Fazio, Santoro, la Gabanelli, la7, il Fatto quotidiano, le petizioni, gli appelli, i benpensanti di destra che episodicamente diventano interessanti per la sinistra perché scoprono l’esistenza della casta; i benpensanti di sinistra che ti accusano di disfattismo e straparlano di unità nel nome dell’unità, senza spiegare a cosa serve stare uniti.
Sono stanca di gente che pretende di gestire la speranza.
Quello di cui io – in qualità di cittadina: di essere sociale e politico; non in qualità di individuo – ho bisogno è gestire la disperazione.
Che si faccia avanti la gente capace di gestire la disperazione, forza.
Voglio il cachemire, e le piume d’oca, e gli stivali waterproof.
Basta copertine di pile di Decathlon, Dunnes Store o Ikea.
Riprendiamoci il lusso della disperazione.
La coda promessa…
Patrizia Borrelli, psicoterapeuta specializzanda del quarto anno, aveva obiettato con energia a un argomento che avevo discusso brevemente alla tavola rotonda a cui ho partecipato (uno dei prossimi post lo utilizzerò per riportare il mio intervento, magari).
Poi, mi ha dato un passaggio in macchina da Torino a Milano.
Sarebbe potuto essere molto imbarazzante, e invece non solo ci siamo spiegate sulla questione che aveva originato la divergenza, ma ci siamo anche raccontate le cose della vita con fiducia e apertura.
Lezioni da imparare.
È stato un bellissimo viaggio in autostrada.
ps: Grazie a Paolo Bertrando, a Marco Bianciardi, a Massimo Giuliani, a Teresa Arcelloni, Laura Fruggeri, Pietro Barbetta, Gabriela Gaspari, Gloria Ferrero, Katia Acquafredda, Claudia Lini, alle due terapeute venete Pellizzaroli e Bastianello, Maurizio Marzari, ai due terapeuti trevigiani di cui non ricordo il nome, a Gabriella Gilli.
Un abbraccio affettuoso ad Anna Castellucci.
ho una tasca speciale per parole come queste. le prendo e le metto lì.
mi volto, vado via, mi fermo, guardo, dico grazie, sorrido a testa bassa, corro.
vittorio
Mi hai sempre dato l’impressione di un uomo che ha piene queste tasche…
😉
Federica, innanzitutto grazie a te per l’intervento a Torino (e per le chiacchierate nelle pause). Chiaro che speriamo di poterlo leggere sul blog. 😉 Molto utile in un contesto di persone che si stanno addestrando a vedere l’altro lato delle cose (stavo per dire “il lato b”, poi ho realizzato che l’espressione di recente si è conquistata un’accezione, come dire…?)
Se le cose stanno come dici tu, questo è il paradosso asfissiante che viviamo. Come quello che, se eccepisci mica chissacché, solo che ti piacerebbe un presidente del consiglio un filo meno sbragato, ti senti dire (persino da Comunione e Liberazione, mi spiego?) che sei un moralista bacchettone e che ti piace sbirciare nelle camere altrui.
Tutta quella plastica in tv in realtà non parla del corpo: lo nasconde, lo simula, tutt’al più lo sbatte sotto i riflettori, ma pompato, levigato, oliato, fasullo. Però il giorno che tutti si accorgessero di essere stufi e mandassimo in soffitta veline, letterine e fauna simile, sparirebbe anche quello. Quello che del corpo resta oltre quella plastica.
Dicevo il paradosso, ma meglio il doppio legame (visto che poi il discorso parte da un convegno di terapia della famiglia): se ti tieni quei corpi là, li insulti. Se no, li nascondi. Fottuto in un caso e nell’altro.
Non c’è scampo?
Pare di no. A meno che, come per ogni doppio legame, non esista una risposta creativa che cavalchi la contraddizione senza farsi disarcionare.
Una volta, per esempio, una marca di saponette aveva cominciato a mostrare donne “normali”, non stereotipate, non necessariamente avvenentissime. Non so se funzionasse sotto il profilo del marketing. Ma se invece di combattere la battaglia improba (e perdente) contro un modello egemone di corpo eccetera, provassimo a farli diventare due, cinque, dieci, cinquanta, quei modelli?
Grazie a voi per l’invito, invece.
Il problema è farsi sentire – e vedere – perforando il rumore.
Ma anche, vedendola dall’altra parte, accettare il rumore e portare in giro i propri corpi normali con il coraggio di esibirli un po’ di più anche se sono imperfetti.
Qui in Irlanda, per esempio, le donne comprano vestiti sexy (alcuni pazzeschi!) anche se pesano più di cento chili. E se li mettono.
Vuol dire che hanno una percezione della propria sensualità ben diversa dalla nostra; che si sentono capaci di essere attraenti indipendentemente dalla perfezione.
Questa per me è stata una scoperta bella.
Federica grazie. E’ raro condensare lucidità e pregnanza come in queste tue righe. Mi hai trasmesso spunti penso cruciali. Troppo ampio per trattarlo in un commento. Qui volevo solo complimentarmi, a presto.
Luca, grazie!
Buongiorno Federica
In passato abbiamo avuto una discussione un po’ tormentosa su uno di quei fenomeni che qui definisci “copertine di pile”, nella cui utilità sociale ancora mi ostino a credere.
Voglio dirti però lo stesso che il tuo articolo mi è piaciuto molto. La riflessione sul ruolo del corpo delle donne nel processo di rimozione collettiva della morte (non solo della vecchiaia, che non è proprio la stessa cosa) non viene fatta quasi mai nei dibattiti pubblici. Ma è necessaria per capire gli effetti “sistemici” della strumentalizzazione dei corpi femminili. Tutte le persone che vivono pacificamente il quotidiano normalizzato e anestetizzato, disegnato da decenni dalle strategie pubblicitarie, e sfruttato dal potere per meglio “gestire la speranza”, i maschi come le femmine, hanno bisogno di quei corpi. Quei corpi hanno una funzione anestetica precisa nella nostra società per quel che riguarda la morte e il dolore per la morte. E sono d’accordo sul fatto che un movimento politico e sociale diciamo “a-berlusconiano” dovrebbe essere in grado di “gestire la disperazione”.
Ciao, Daniele.
Grazie di essere ripassato di qua.
Mi fa piacere che la questione della disperazione sembri rilevante anche a te. Ci sbatto la testa da un sacco di tempo, purtroppo. Non sulla disperazione in sé – benché dal punto di vista politico io come ne cittadina ne senta tutto il peso – ma sulla gestione della disperazione. Il pannicello caldo è una speranza finta che – so che qui siamo discordi – finisce perfino per far del male alle speranze possibili, a quelle su cui magari si potrebbe perfino costruire qualcosa.
Ciao!