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la mafia, peppino, saviano e l’einaudi
Poi dopo più di vent’anni, nasce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato – ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello e dalla mamma – ma addirittura la rende a tutti, come un dono.
Un dono alla stato di diritto e alla giustizia.
Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all’epoca detenuto negli Stati Uniti.
Un film riapre un processo.
Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.
Ho appreso che Roberto Saviano (autore delle parole riportate nella citazione iniziale) ha denunciato per diffamazione Paolo Persichetti, che su Liberazione del 14 ottobre aveva scritto quest’articolo.
Al di là della questione specificamente riferita al pezzo di Persichetti, che in effetti su Saviano avanza riserve piuttosto radicali e tranchant, è stato risalendo per li rami che ho trovato la storia che di quel pezzo sta a base.
È una storia che vi prego di prendervi la pazienza di leggere.
La trovate qui, in ordine inverso, dall’episodio più recente a quello più vecchio, da cui tutto è cominciato (a mano a mano che passerà il tempo, le news più recenti la sospingeranno in basso; spero che al link che ho segnato si trovi anche fra qualche mese…).
Leggetela. Dice tante cose dell’Italia, dell’editoria, e del modo in cui la necessità collettiva di spettacolarizzazione della realtà appiattisce e banalizza la complessità.
E per la sua sostanziale uscita dai radar dell’informazione mainstream, questa storia – che nasce più di sei mesi fa – dimostra anche quanto solida sia la socializzazione della «personaggità», della «democrazia della paletta», della «televisivizzazione».
È una storia che da sola spiega molto.
Va conosciuta, secondo me.
In estremissima sintesi, in «La parola contro la camorra», Saviano dice che dell’omicidio di Peppino Impastato nessuno praticamente si occupò per oltre vent’anni, fino a quando La Parola – stavolta sotto forma di film, ovvero «I cento passi» – non fece riaprire un processo (non le indagini) sull’omicidio Impastato.
Di seguito, la citazione che apre il post:
Poi dopo più di vent’anni, nasce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato – ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello e dalla mamma – ma addirittura la rende a tutti, come un dono. Un dono alla stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all’epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.
L’idea di base, insomma, è sempre quella: il potere quasi magico di disvelamento della Parola.
Il centro Impastato non ci sta, e scrive alla casa editrice Einaudi chiedendo la rettifica: noi, dice, siamo stati tutt’altro che in silenzio, abbiamo fatto tante cose. Noi abbiamo fatto riaprire inchieste che sono sfociate in due processi che sono cominciati prima che il film andasse a Venezia.
L’Einaudi risponde che se queste diffamazioni non cessano, querelerà.
Il centro non resta zitto, e all’Einaudi scrive anche il fratello di Peppino, Giovanni.
L’ultima puntata è una lettera firmata da decine di persone, fra cui Riccardo Orioles, Haidi Giuliani, Tonino Perna, Sergio Tanzarella e Tano Grasso.
Avendo pubblicato un’affermazione che nel migliore dei casi è retoricamente efficace per la sua enorme capacità evocativa («Un film fa riaprire un processo») e avendo ricevuto una richiesta di rettifica che mira a vedere riconosciuto l’impegno di una madre, di un fratello, di una cognata, di alcuni amici e di un intero centro di documentazione che ha ottenuto non solo la riapertura di due indagini ma anche (incredibile dictu) l’individuazione giudiziaria dei mandanti mafiosi (anche se non so se le sentenze siano passate in giudicato), una delle maggiori case editrici italiane risponde dicendo che in fondo
l’obiettivo del testo “La parola contro la camorra” (…) è evidentemente quello di sottolineare il ruolo rilevante che può avere un film e, in generale, ogni forma di media, rispetto al compito di riportare alla memoria dell’opinione pubblica episodi di cronaca di primo piano
e comunque sarebbe meglio che steste zitti, o – altro che rettifiche – vi quereliamo noi.
Praticamente dice che tutto ciò che esula dalla sfera di immediato interesse dell’autore Saviano – «sottolineare il ruolo rilevante di ogni forma di media rispetto al compito di riportare alla memoria» – non esiste.
Quel libro voleva dire solo ed esclusivamente questo, dice l’Einaudi, e se ci trovate qualcosa che non vi torna, beh, quel qualcosa che non vi torna è del tutto secondario rispetto all’importanza dei media per tenere viva la memoria, non importa se questa memoria è selettivamente orientata a una ricostruzione della storia funzionale alla tesi principale.
A me pare sconvolgente, perché è il pozzo nel quale siamo caduti tutti, destra e sinistra.
Il pozzo tautologico del chissenefrega, del tifo giornalistico-politico.
Il pozzo in cui quel che conta non è mai, veramente, spiegare, ma affermare, affermar/si, esserci, rendersi velocemente riconoscibili come veicoli di messaggi premasticati di facile comprensione.
Abbasso la complessità.
Sul bordo di quel pozzo, e sulle sue pareti profondissime, c’è scritto questo.
Sconfortante. Peraltro, la storia di Peppino Impastato andò in televisione prima ancora che al cinema in uno dei Delitti imperfetti a cura di Claudio Fava e Marco Risi:
http://www.peppinoimpastato.com/i_cento_passi_film.htm
Tra l’altro, sì.
È incredibile che tutto ciò che conta sia quello che viene detto da coloro ai quali viene socialmente riconosciuto il diritto di dire.
È incredibile che tutto ciò che viene considerato vero è ciò che esce dalla bocca o dalla penna di chi viene socialmente riconosciuto come colui che ha il diritto di dire la verità.
Ecco, quando ti parlai della disonestà intellettuale di Saviano, via posta di FB, io parlavo proprio di questo caso.
Cioè: lasciamo perdere che hai detto una cavolata immane, incredibile, impossibile. Ma una volta che vieni messo di fronte a dei dati, di fronte a riscontri incontrovertibili sull’errore commesso, non puoi reagire in quel modo, col silenzio prima (omertà!) e con gli avvocati poi. Si tratta di malafede, di disonestà, di un atto volontario, non c’entra più la leggerezza o l’errore.
E, guardando all’errore commesso, è molto, molto improbabile pensare ad una leggerezza.
“…ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello e dalla mamma…”
cioè, scrivi su Impastato e non sai del centro Impastato? ma è roba che salta fuori consultando google o wikipedia. E se lo sai, allora l’espressione citata vuole volontariamente nasconderne l’esistenza a chi legge, per questioni ideologiche. Qui siamo al revisionismo sulla storia della lotta alla mafia, un terreno pericoloso su cui è bene tenersi lontani, e che bisogna combattere nei limiti del possibile.
Però, Matteo, aspetta.
Una cosa è la querela minacciata dall’Einaudi (e lì Saviano non c’entra); altra cosa è la querela di Saviano al giornalista di Liberazione.
Saviano non querela Persichetti per la storia di Impastato in se stessa, ma per quel che Persichetti dice di lui in relazione alla vicenda di Impastato.
Non so che impressione tu abbia ricavato dalla lettura dell’articolo del 14 ottobre 2010 scritto da Persichetti: a me sembra che una frase come questa
«L’inquietante livello di osmosi raggiunto con gli apparati inquirenti e d’investigazione, che l’hanno trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia, dovrebbe sollevare domande sulla sua funzione intellettuale e sulla sua reale capacità d’indipendenza critica»
prescinda dalla questione Impastato in se stessa, e riporti un giudizio del giornalista dal quale Saviano può anche essersi sentito leso, indipententemente da come la pensiamo tu o io.
Come giustamente dici tu, il punto è che non è una bella cosa, affatto, omettere pezzi di storia per il gusto di affermare una verità retorica.
Sì, certo.
Ma capisci, tra la querela di Einaudi al centro Impastato, e la querela al giornalista di Liberazione c’è il silenzio, il nulla. Quindi la posizione ufficiale di Saviano, in linea di massima è “niente da dire… ah, Persichetti macchina del fango!”. Ciò inoltre sposta il baricentro della questione di partenza, che non è più l’errore di Saviano e la sua disonestà intellettuale (disonestà intellettuale data dai motivi da me sopra esposti), ma Saviano che fa causa a Persichetti.