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l’atomo e whitebread, l’uomo che sta nel mezzo
L’editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di stamattina è uno splendido esempio di quell’errore che Petr Skrabanek e James McCormick, in «Follie e inganni della medicina» (Marsilio, 1992), definiscono «l’errore del giusto mezzo».
Ecco cosa scrivono i due medici:
Se una posizione estrema vuole che 2+2=6, mentre un’altra sostiene che 2+2=4, non ne consegue che la posizione più moderata, cioè 2+2=5, sia quella più ragionevole o sicura».
Panebianco, argomentando in fatto di nucleare sotto l’eloquentissimo titolo di «La paura e la ragione», sembra credere che 2+2=5.
«La schiacciante maggioranza delle centrali giapponesi», scrive, «ha resistito benissimo sotto l’impatto di un terremoto di violenza devastante».
Bene.
Ma se una posizione estrema sostiene che, per dirsi tale, la tragedia avrebbe dovuto coinvolgere tutte le centrali nucleari giapponesi, e un’altra posizione – all’altro estremo della retta – sostiene che a trasformare in tragedia lo scenario basta che l’incidente coinvolga una sola centrale, non è che abbia ragione chi come Panebianco si mette a metà, sostenendo che sia ragionevole e sicuro affidarsi al fatto che un grande numero di centrali nucleari giapponesi non è esploso.
Ma a quanto pare, invece, il bisogno psicoanaliticamente rilevante di apparire moderati, ragionevoli e – dio ce ne scampi – non estremisti prevale su qualunque altra considerazione.
La frase con cui l’editoriale si conclude è veramente un capolavoro:
Ciò che non va è l’irrazionalità di chi, pretendendo l’impossibile, ossia eliminare il rischio, rinuncia semplicemente a vivere.
Appoggio incondizionatamente l’idea alla base di quest’affermazione; senza esitazioni.
Allora, però, vorrei che qualcuno mi spiegasse la ragione per la quale così grande successo riscuote ciò che chiamiamo medicina preventiva.
Il rischio è connesso alla vita. Come si legge anche nel libro di Skrabanek e McCormick, «poiché la vita stessa è una malattia inevitabile a trasmissione sessuale» e, aggiungo io, ad esito sicuramente mortale, «viverla pienamente richiede la capacità di dosare rischi ragionevoli e rischi irragionevoli».
Non – come crede Panebianco – di affrontare solo i rischi ragionevoli.
E se Panebianco ha ragione, mi aspetto che finalmente la smetta, la medicina, di promettere l’immortalità; di parlare di prevenzione come se questo potesse effettivamente salvarci la vita.
In «Inganni della medicina» (Marsilio, 1981), Norbert Bensaid riporta questa frase altrui: «Nel 1977, si registrano ancora 800 mila decessi, negli Stati Uniti, per accidenti cardiovascolari. La lotta contro queste malattie dovrebbe essere prioritaria».
Posto che comunque morir si deve, Bensaid si domanda: «Quanti sarebbero dovuti essere (i morti, ndr)? Di quali malattie sarebbero dovuti morire gli altri?. Sembra un po’ la logica che spingeva un umorista a rifiutarsi di andare a letto. La maggior parte della gente non muore forse in un letto?».
Se Panebianco ha ragione, insomma, e eliminare il rischio dalla vita è impossibile, vorrei che la smettessimo con tutta l’ideologia delle campagne antifumo, per esempio.
Nell’International Journal of Epidemiology numero 14 del 1985, venne riportato l’esito di uno studio che aveva rinvenuto una corrispondenza perfetta fra cancro al polmone e abitudine di portare il cappello.
Nel primo gruppo, il 20 per cento delle persone portava il cappello e il 20 per cento aveva sviluppato la malattia.
Nel secondo, il 40 per cento portava il cappello e il 40 per cento aveva sviluppato la malattia.
Nel terzo, il 60 per cento portava il cappello e il 60 per cento aveva sviluppato la malattia.
Siamo sempre sicuri che la correlazione statistica sia ricondubile a un rapporto di nesso causale?
«Il rischio relativo», scrivono Skrabanek e McCormick, «(…) non ha nessun rapporto con la probabilità che un individuo sviluppi quella malattia».
In uno studio pubblicato sul Journal of the National Cancer Institute numero 78 del 1987 «sulla correlazione fra fumo, alcol e cancro della mammella», scrivono i due medici (che peraltro hanno lavorato in Irlanda), «i ricercatori hanno evidenziato come il consumo di alcol arrivi quasi a raddoppiare tale rischio, mentre fumare lo riduce della metà. Ma i ricercatori non hanno avuto il coraggio di raccomandare alle donne (…) “Se bevete, fumate pure, per l’amor di Dio!”».
Perciò, se Panebianco ha ragione, qualcuno mi spieghi l’ideologia delle campagne salutiste.
Come scrive Bensaid,
Se si sommassero, in un’unica contabilità centralizzata, tutte le spese dell’automobile – le materie prime, la mano d’opera, la costruzione e la manutenzione delle fabbriche di automobili, la costruzione e la manutenzione delle strade e delle opere d’arte, il consumo di prodotti petroliferi, i costi delle assicurazioni, i guasti provocati dagli inquinamenti, i costi degli incidenti, delle riparazioni, della manutenzione dei veicoli, il tempo perduto negli intasamenti eccetera – si otterrebbero probabilmente cifre sbalorditive.
Ma la dispersione delle spese in settori diversi consente di non spaventare la popolazione.
O, forse, alcuni interessi particolari impediscono di drammatizzare questo problema così come si drammatizza la spesa sanitaria».
Non fa una grinza.
E ora, Panebianco, la grandissima Prestigiacomo, Chicco Testa e un certo numero di altri moderati e ragionevolissimi cervelli, ci spiegano che non dobbiamo drammatizzare il rischio nucleare.
Bravi.
E allora come mai drammatizziamo il fumo?
E come mai non drammatizziamo l’inquinamento industriale?
io sarò un semplificatore, ma a Panebianco direi: scusi, è favorevole ad andare in Giappone, e, grazie ad un traduttore, assistere mentre viene letto il suo articolo ad una platea composta da persone che hanno perso parenti e amici negli incidenti, o che sono state contaminate?
Come dice? non bisogna essere emotivi? La posso picchiare restando serio, allora!
In Giappone – come Angel sa così bene da ripetercelo nel suo pezzo – sono tutti così educatamente composti, Matteo.
Potrebbe benissimo andar là, Angel, col suo articolone. Nessuno gli direbbe niente.
Quella è gente beneducata, mica come noi che se ci succede una catastrofe nucleare ci mettiamo a piangere e a disperarci.
Piuttosto, propongo una deportazione itinerante di A.W. nei vari siti in cui di volta in volta si dovesse verificare una fuga radioattiva: come Egli ci spiega, la gran parte delle centrali ha resistito, e questo è rassicurante.
Quindi, nei posti dove le centrali hanno retto non c’è bisogno di lui. Là sono già tutti tranquilli a sufficienza.
No. Della sua tranquillità c’è bisogno là dove gli incidenti ci sono stati.
Se ne gioverebbero tutti.
Tecnicamente è proprio un banale problema di matematica. Si moltiplica la probabilità del rischio per l’ampiezza dei suoi effetti. Così si può valutare la ‘convenienza’ del nucleare.
In questo modo si scopre che è più conveniente viaggiare in aereo che in auto quand’anche cadendo una aereo la morte è pressoché sicura.
La storia nucleare contempla tre incidenti significativi. Three Mile Island (Usa), 1979. Chernobyl (Ucraina), 1986. Fukushima (Giappone), 2011. L’ultimo è in corso e nonostante le dichiaraizoni può diventare il più grave della storia.
Per quanto siano incidenti gravi nessuno di essi può essere definito gravissimo. Ossia può succedere assai di peggio.
Non siamo di fronte a rischi insignificanti, tutt’altro. Siamo di fronte a danni considerevoli. La conclusione è scontata, direi.
Forse giustificazione diversa la si può trovare nelle necessità militari e nell’equilibrio del terrore. Ma il nome indica in sé che accettare questo terreno del confronto non promette un bel vivere.
Condivido in pieno il tuo articolo Federica.