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il lavoro, marchionne, saviano, il merito e le parole
«Nel nostro Paese si fa troppa politica» (da qui).
Caro. Sant’uomo.
Questo Marchionne mi piace di più ogni giorno che passa.
Ha ragione da vendere.
Ora che Cisl e Uil gli hanno regalato le terga degli operai (i quali avevano da scegliere fra battagliare e mettere in vendita le terga senza ben sapere di quali dimensioni sarebbe stata l’eventuale trave che vi avrebbe trovato ricetto, o sapendo fin d’allora che la trave sarebbe stata grande, e tutt’altro che liscia), lui spara un po’ più in alto.
La condizione per restare in Italia era che il mondo del lavoro e la «politica» gli si genuflettessero davanti in rispettosa deferenza, e ora che il prodigio è avvenuto egli sa che può chiedere di più.
Non importa se la Fiat si sposterà davvero in America o se quella di Marchionne sia solo una minaccia per alzare il prezzo: quel che è chiaro è che comanda lui.
E la politica, caro, non gli piace.
Probabilmente consapevole che tra il governo e la politica c’è lo stesso nesso che collega Naomi Campbell al fruttivendolo di Porto San Pancrazio (quartiere di Verona), la politica addosso alla quale riversa i sensi del suo disgusto è l’unica che rimane ancorata al senso di ciò che chiamerei «rappresentanza» (contrapponendola alla «gestione» e all’«amministrazione», che son ciò in cui si sostanzia ciò che ora viene chiamato «politica»): la politica sindacale.
Non so.
Non so come riesca a guardarsi allo specchio.
Tra l’altro, con quei ridicoli maglioncini blu da padrone democratico…
Ah.
Volevo dire che Saviano parla – attenzione: «parla da trentenne» (benché ricordi quel che diceva don Milani) – ancora della «macchina del fango».
Essendo scrittore (particolare confermato anche dalla citazione di Guicciardini), mi sentirei di implorarlo affinché mobilitando le sue risorse di creatività partorisca una formula meno vieta, meno fastidiosa.
Sono abituata a pensare che accettare le parole altrui sia una dichiarazione di impotenza.
Anche se si favoleggia sul fatto «che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno stesso paese ed un unico destino» – indipendentemente dalle nostre idee politiche e della nostra idea di mondo, ovvio – e ci si rigira in bocca «un sogno che non può non farti combattere con tutto te stesso contro l’impossibilità di far affermare il merito, l’impegno, il talento».
Ecco. Vogliamo parlare della meritocrazia?
Un pochino sì, dai.
Cito dalla mail di un amico che racconta di un incontro con alcuni conoscenti:
E quando tu cerchi di spiegare loro che criteri giusti nelle valutazioni (universitarie o lavorative) e meritocrazia sono cose profondamente diverse, perché le parole hanno un peso e non si può mischiare tutto così; (…); quando tu cerchi di dire loro che trovi abominevole che si possa pensare a uno sbarramento all’università sulla base del merito («solo i migliori devono studiare…»), ti chiedi: ma cazzo, ‘sti stronzi qui hanno un’età adulta?
E soprattutto quando fai notare loro che, siccome magari hanno vinto una cazzo di borsa di studio, vorrebbero avere la pappa pronta perché credono di essere l’élite illuminata del Paese… Loro: ma no? Cos’hai capito?
Ho capito che siete tutte gigantesche teste di cazzo piene di merda. E che potrete pure esservi laureati con il massimo dei voti e il bacio in culo accademico, ma della vita e delle persone e della complessità non avete capito una ceppa.Per non dirti come mi hanno risposto quando ho fatto notare che, e non mi pare difficile capirlo, le capacità cognitive dipendono da molti fattori (fattori innati, certo; ma soprattutto familiari, culturali, economici, sociali)…
Invito a leggere quest’articolo di Mauro Boarelli su Lo straniero.
Ne cito alcuni passaggi:
«Il concetto di merito» è «sinonimo di obbedienza e dovere, perché presuppone una legittimazione discrezionale da parte di qualcuno che occupa una posizione gerarchica superiore, o esercita un potere politico».
E anche:
«Solo il sapere rappresenta un criterio equo di selezione del valore individuale, e quindi occorre renderlo disponibile per tutti».
E infine:
Eguaglianza e democrazia. Ecco cosa mette in gioco il concetto di meritocrazia.
Non esprime il riscatto dall’ineguaglianza delle opportunità, ma il suo contrario.
Non si tratta di una sterile disquisizione lessicale. Meritocrazia è una parola densa di implicazioni sociali, una parola che traccia un discrimine e impone di scegliere da che parte stare, senza giocare sulle ambiguità, senza camminare sul filo dei mille significati possibili laddove ce ne sono in realtà ben pochi, chiari, coerenti, connotati ideologicamente e perfettamente riconoscibili».
Chissà come mai c’è gente che pensa che la meritocrazia sia di sinistra.
Chissà come mai c’è gente che crede che Saviano sia di sinistra.
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