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libri nelle nuvole
Grazie a Massimo Giuliani, ho scoperto questa cosa bellissima, in relazione al libro di Maddalena Mapelli.
Le parole di un testo vengono organizzate nello spazio in ragione della loro ricorrenza.
Ho fatto l’esperimento – mi pare una cosa meravigliosa! – con «L’avvocato G.» (qui sopra), ma anche con il racconto «I diari di Emma», uscito su Atti impuri, e con il romanzo «Due colonne taglio basso».
Eccoli qui sotto.
È splendido. Una magia.
Scusa Federica, ma la fantastica nuvola che hai scoperto non è più o meno come la tag cloud che hai sul blog?
Sì, certo. È lo stesso principio. Però per fare la nuvole di «Due colonne taglio basso», per esempio, il sistema ha elaborato oltre 91 mila parole, per un totale di quasi 550 mila caratteri.
In più, tutte quelle parole concorrevano alla creazione di un’unica storia: quindi, vederle gerarchizzate secondo un criterio di ricorrenza statistica (ma anche estetico) dà veramente l’impressione di essere davanti a una specie di sintesi quasi psicoanalitica. È come se desse materia all’immateriale, ai pensieri di una storia che ho pensato nella mia testa e che, anche se nella sua forma scritta rappresenta un continuum, diventa «leggibile» e decodificabile ai miei stessi occhi in un modo diverso.
Se ho ben capito è la visualizzazione di quel gomitolo apparentemente aggrovigliato di parole che sembra di avere nella testa prima di mettere una storia sulla carta. Ogni nuvola una storia. Quante ne hai per la mente tu? Io, ne ho tante da farne un temporale. l.
😉
Sì, è che tutte queste parole definiscono l’identità di quel che ho pensato e scritto in modo visibile e formalizzato.
Qualcuno mi ha detto che il «clouding» è una forma d’arte; penso che sia vero.
Mi domandi quante nuvole. Migliaia, penso. Il fatto è che prima di scrivere una storia che ha un inizio, uno o tanti cuori e una fine – prima di dar carne a una storia, insomma – quella nuvola non ha parole, ma solo colori, sfumature di colori, temperatura, consistenza.
Succede anche a te?
Non lo so. Ma posso dirti che mentre l’idea o la nuvola, si va formando, il sangue mi pulsa forte nelle tempie e, più le immagini si affollano nella testa, più una nebbia fitta cala davanti ai miei occhi. Così, rapita da una storia che non vedrà mai il cielo perdo la cognizione del tempo. Che dici, sarò malata?
Se posso inserirmi, quando ho provato, tempo fa, a usare lo stesso programma, mi ha subito ricordato la sensazione (quasi fisica) di cui mi accorgo prima di scrivere: qualcosa di aggrovigliato, di chiuso, come un gomitolo fatto male (quando ne parlo a scuola uso un termine veneto: il “grop”). Una sensazione che continua fin quando mi metto con pazienza a districare tutto, una parola per volta… scoprire poi che la parola più vistosa era quella che riassume tutto è stato prevedibile ma sorprendente lo stesso: proprio non mi ricordavo di averla usata così spesso, ho il sospetto che anche a rileggermi andasse a nascondersi da qualche parte.
Sì, hai ragione. Le parole più usate sono andate a nascondersi da qualche parte. È proprio così: fanno tutto quasi a nostra insaputa!
Ah, Giuliano.
Non che io sia un’autorità in materia. Tutt’altro.
Ma la parola veneta è «gropo»., con la (prima) «o» stretta, credo, come in «orso».
😉
Neanch’io sono un esperto, in fatto di dialetto sono al massimo credente ma non praticante. Sarà sicuramente come dici, ma qui dalle parti di Conegliano – forse per le estreme influenze del bellunese – ho sempre sentito dire così… magari dovevo dire che è una variante locale del veneto, ma la mettevo troppo lunga…