le parole sono folletti, e cambiano colore

La giornata di oggi è stata proprio pesante, difficile.
Un impossibile esercizio di equilibri fra senso delle parole, contesti, significati e codici comunicativi che mi ha stroncata, uccisa, frantumata.
Rimarrà nelle mie memorie personali come uno degli esempi più dolorosamente chiari di tutto ciò che alle parole non si deve mai consentire di fare: danzarci intorno come folletti che cambiano apparenza.

Certi folletti escono dalla bocca vestiti di azzurro e non fai nemmeno in tempo a guardarli svolazzare che la voce che ha dato loro la materia li ha già rivestiti di giallo, e poi di mille altre tinte.
Tu vorresti dire qualcosa, esprimere stupore, ma nel frattempo i folletti son tornati azzurri, e poi son di nuovo di un altro colore e hanno mantelli più corti e pesanti, fanno curve più ampie.

Allora dici «ehi, ma questi folletti continuano a cambiare», ma i maghi dei folletti dicono «no, non è vero: abbiamo sempre usato quei folletti e nessuno li ha mai visti mutar di colore».
E tu resti lì, a guardare immaginette che cambiano, pensando che è colpa dei tuoi occhi troppo sensibili.
Poi pensi che no, i folletti son cambiati veramente.
Ma all’improvviso capisci che dirlo non ha più senso, perché quando lo dici i maghi ti chiedono di quanti colori stai parlando, e quando li hai visti mutare, e che apparenza aveva il primo folletto, e a quale mantello esattamente ti stai riferendo, e non può essere che tu abbia una tua personale disponibilità a vedere colori primari là dove in fondo c’è solo una gamma di grigi?

Le parole sanno essere tremende.
Sono l’arma di offesa più affilata, e non perché ti dicano cose cattive, ma perché ci sono maghi che le costruiscono in modo che ti scappino di mano, azzerando provvisoriamente la fiducia che hai nella tua percezione delle cose e degli spostamenti d’aria anche piccolissimi.
Sono lo scudo di difesa più imperforabile e potente, e non perché siano di kevlar, ma perché nella loro apparente immaterialità si spostano a protezione di qualunque cosa con un semplice moto del pensiero.
Sono la più ingannevole delle carezze, anche.

La mia giornata è veramente cominciata, oggi, non quando mi sono alzata, ma quando sono passata davanti alle vetrine della banca in cui mio padre lavorava quando ero piccola.
Era la Cassa di risparmio di Verona Vicenza e Belluno, all’epoca.
Negli anni della mia scuola elementare e forse anche delle medie, mio padre lavorava in un ufficio in piazza Cittadella, qui a Verona, vicino piazza Bra.
C’era anche un’entrata secondaria che dava su via Caserma Ospitalvecchio, una strada malinconica e grigiastra.

Negli ultimi anni, dopo avere modificato anche la disposizione interna degli spazi, la Cassa era diventata Unicredit.
Sopra le vetrate dell’ingresso principale c’erano fino a pochi giorni fa i loghi della nuova banca.
Bianchi, arancioni e neri.
Volevo dire folletti bianchi, arancioni e neri.

Stamattina ho visto che la banca l’hanno spostata di qualche numero civico, sullo stesso marciapiede. Già questo è stato straniante.
La banca dove c’erano i passi di mio padre diventerà un’altra cosa. Chissà che cosa. Fino a che era banca, apparteneva ancora a me e a mio padre.

Poi ho alzato gli occhi e ho visto che i folletti bianchi, arancioni e neri non c’erano più.
C’era un vuoto brutto come quello che lascia un dente che cade.
Muro grigio.
E su quella fascia di muro grigio e senza intonaco, l’alone più scuro dei folletti che vivevano là prima che nascessero i folletti Unicredit.
Caratteri di plastica, dovevano essere.
Spigolosi, grafica anni Cinquanta o Sessanta. Stampatello maiuscolo.
«ESATTORIA COMUNALE».

Erano verdi scuro, e poi blu, e poi neri, e poi gialli, e poi mi facevano girare la testa e sgranare gli occhi.
Mi sono fermata come se un vigile che mi porto nell’anima avesse urlato uno stop.
Guardavo l’impronta di quella scritta che avevo dimenticato, e mi è ritornato in mente tutto.
Prima ancora che i lineamenti della mia faccia potessero risultarne minimamente alterati, gli occhi si sono riempiti di lacrime e le lacrime sono scese sulle mie guance e giù fino al collo, fermati dalla sciarpa.

I folletti cattivi colpiscono a tradimento, bastardi.
Si spogliano e si rivestono; ti spogliano e ti rivestono, in un istante, e ti lasciano a domandarti se hai immaginato tutto tu da sola.
Si lasciano guardare e scappano via.
E tu non sai cos’hai visto, cos’hai sentito.
Non sai neanche chi sei, più: se quella piccola o quella grande; quella che ha paura o quella che si fida.

«ESATTORIA COMUNALE» non erano nemmeno parole, e non erano neppure vere lettere.
Erano l’impronta che le lettere avevano lasciato sul muro.
Ed erano le lettere che gli occhi di mio padre avranno accarezzato così tante volte da non vederle nemmeno più.
Proprio com’è successo a me, che nemmeno ne ricordavo più l’esistenza.

Mio padre diceva sempre che lavorava in esattoria, e non in banca.
Mio padre tornava a casa raccontando che aveva spostato la cartella esattoriale di qualcuno in basso in basso, sotto il mucchio di quelle il cui pagamento sarebbe stato preteso dall’esattore (che credo fosse mandato ad esigere proprio da lui, ma non ne sono certa): era di qualcuno che aveva avuto problemi familiari, un lutto; di qualcuno che si trovava in difficoltà.
Sono fiera di questa responsabilità indebita che mio padre si assumeva.
Non aveva lo spirito del travet, ma quello del combattente.
Magari battaglie insensate, contro folletti che cambiavano colore; ma combatteva.

I fantasmi dei folletti di quelle due parole potevano comparire un anno fa, o sei mesi fa, o l’anno prossimo. O io non passarci mai davanti.
E invece li ho visti.
Li ho visti stamattina, dopo una settimana in cui ho portato in giro un librino – «L’avvocato G.» – in cui le trappole del maschile e del femminile, i loro punti d’incontro, le loro tragedie e le loro alchimie, il loro reciproco riconoscimento dal quale solo dipende la saldezza della propria identità di genere sono il materasso su cui si stende tutta la storia.

Li ho visti stamattina, in un momento in cui mi trovo pienamente immersa nell’acqua del maschile, alla ricerca di quale femminile sono io; e di quale femminile posso ancora diventare.

Da un po’ di tempo sto provando a ripassare – non saprei come dirlo diversamente, perché non è una riflessione, ma un riassestamento interiore ricco di sorprese – il mio rapporto con il mondo maschile.
Ho un marito.
Ho un figlio maschio.

Ma prima ancora avevo un padre, e non era un padre semplice.
Era un uomo a cui nessuno aveva insegnato ad amare, e ciononostante ci provava ostinatamente, sbagliando sempre. Scambiando per amore i riti archetipici di qualche sacrificio politeista: l’offerta di un grande vassoio di frutta, o di una lunga veste bordata d’oro.

Mi ricordo quando camminavo per strada con lui, da piccola.
Braccio teso in alto, manina minuscola nella sua mano enorme.
La sensazione di essere protetta, custodita, che all’improvviso – ecco i folletti bastardi che cambiano colore – svaniva perché qualcosa che non sapevo allora e non ho mai saputo dopo faceva ombra al suo momento di gioia o di pienezza; alla felicità che provava per il fatto di stringere la mano della sua bambina.

E dopo di lui ho avuto un fratello maschio.
Inservibile come fratello – se non per il suo drammatico essere tributario di chiunque – e inservibile come maschio.
Duro da dire, orrendo da vedere scritto.
Era meraviglioso.
Un bambino splendido.
Quanto dolore, mio dio.
Quanto.
Nessuno può immaginare quanto enorme, senza fondo e disperato possa essere il dolore di una sorella bambina.

A vedere l’impronta dei folletti che cambiano colore c’era quella figlia sorella bambina col braccino sospeso per aria e la mano nella mano di suo padre.
Ho cominciato la giornata piangendo per colpa dei folletti, oggi.
Oggi i folletti mi hanno accoltellata, affettata, squartata.
E sorridevano. Mi dicevano «ti puoi fidare».

Ma le parole sono maschi, e cambiano colore.
E quando dici che te ne sei accorta, i maghi dei folletti negano.
Sono i maghi dei folletti che appartengono al maschile del mio passato.
Volevo affrontarli; dar loro la mia mano, che è grande, adesso.
Ma mi hanno tradito ancora.