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it could be sweet
In un thread avviato da me sulla mia bacheca di Fb a proposito della concitazione della vita e del bisogno di lentezza (che per essere preparata esige paradossalmente un’accelerazione, a meno che non si pensi di fuggire, ma la fuga per me non è un orizzonte), m’è venuto da dire che investire su se stessi significa investire sulla propria fragilità, perché sulla propria forza non c’è niente da costruire.
Io questa cosa la «sento» proprio, la avverto senza nemmeno essere in grado di argomentarla con la compiutezza che vorrei.
Sento che non è la semplice fascinazione retorica dell’opposto, ma è anche vero che in questo pezzo di vita mi sembra di dover guardare da vicino l’«opposto», il «distante».
Esattamente stasera ho letto un post di un caro amico che parlava del maestrale- Lui lo ha descritto senza credo rendersi conto come un vento che vira verso sud-est e non come un vento che proviene da nord-ovest. Da questo nasce il modo diverso di vedere le cose.
Non so perché ma questa sensazione che hai descritto mi fa pensare ad una condizione comune, diffusa nella nostra società. Debolezza, fragilità, incertezza, precarietà, provvisorietà. Tutte cose su cui, nostro malgrado, poggia la nostra esistenza. E a cui riusciamo a reagire con altrettanto provvisori “significanti d’incolumità”. Uno fra tutti: Suv per sopravvivere nelle pericolissime strade cittadine.
Benvenuto, Francesco.
È bello vedere facce nuove.
Io ho fatto esperienza di una cosa: che difendersi non serve a niente, ed è tutt’altro che una prova di forza.
Portare la corazza serve a proteggere corpi non vulnerabili, ma già vulnerati.
Permettersi il lusso di toglierla è concedersi la possibilità non solo di farsi ferire, ma anche di lasciarsi vedere e di vedere attraverso il proprio corpo.
Ovviamente, siamo più fragili: su un piano collettivo, più precari, incerti, deboli, provvisori, come scrivi tu.
Su un piano individuale, più esposti all’incontro con ciò da cui ci difendevamo; ma anche all’incontro in se stesso (che è il senso della vita, penso quando – come oggi – mi sento così stupidamente saggia).
Ma siamo finalmente senza corazza, e questo vuol dire che abbiamo fiducia in noi e perfino nel mondo.
Che senso di liberazione.
Gians, sì, sono sicura che è così.
Mettersi di lato, guardare di sguincio, dare nomi nuovi, portare le cose dentro il proprio sguardo.
C’era uno dei miei adoratissimi romanzi definiti di serie b – sai, di quelli pieni di autentici tesori che nessuno sarà mai disposto a dire di aver visto perché quella letteratura lì la chiamano di intrattenimento, come se all’intrattenersi fosse connessa l’idea della fuga invece che del «trattenersi», del «fermarsi» – c’era una frase che non riesco a smettere di ripetermi, da quando l’ho letta: «Il nemico», diceva più o meno, «non si affronta sul suo campo. Lo devi portare sul tuo».
A parte il dibattito che si potrebbe aprire sul senso del termine «nemico», contestualizzato e no, resta che quando secondo te il maestrale spira da nord-ovest spira da nord-ovest. E che si fotta chi lo vede dall’altra parte. No?
Sì Federica in effetti sembra una prospettiva incoragginate. Del resto, nonostante il lamento funebre sulla società (non c’è più la società di una volta, sob!) e la sostituzione di questa con il concetto di “rete” sociale non riesco a non considerarne gli aspetti positivi. Di relazione, di apertura e di inclusione. Ecco, se tu oggi sei sul saggio io sono sul sociologico. Grazie per l’accoglienza nella tua casa.
Sarah McLachlan, Sweet Surrender.
Splendido paragone quello con il Mistral e il senso del suo soffiare, bravi entrambi. Alla fine l’importante è che il vento soffi e soffi ancora, perché ci consegna suoni e profumi che non conosciamo, e in cambio si porta via qualcosa di noi, per lasciarlo a qualcuno in qualche altrove.
Promossi, ispettore?
😉
“bisogno di lentezza (che per essere preparata esige paradossalmente un’accelerazione […]”
in certi casi, il bisogno di lentezza, per manifestarsi e per compiersi, ha bisogno anche di una brusca e indesiderata (e, sì, magari anche inimmaginata) frenata.
Quella, in effetti, c’è già stata…
E da quella frenata è partito tutto.
È vero.
…guardare per vedere…..dentro se stessi.
I giorni stavano volando via scanditi uno dopo l’altro dal ritmo della classica vacanza familiare.
Ma Lei sentiva anche il bisogno di momenti di solitudine per risvegliare sensazioni sopite e riempirsi dei colori e dei profumi dell’Africa.
Così, tutte le mattine prima dell’alba, lasciava furtiva la sua famiglia ancora immersa nel sonno e attraversava il villaggio addormentato arrivando di corsa sulla spiaggia deserta.
Emozionata, si sedeva sulla sabbia fredda, dove il suo essere si fondeva con quel che restava del mondo primitivo e fissando l’orizzonte stava in attesa della prima luce del sole,
che sorgendo avrebbe rischiarato il cielo, il mare e lei,
una semplice donna. Come la progenitrice di tutta l’umanità,
L’Eva preistorica che era vissuta e aveva dato la vita ai propri figli guardando lo stesso sole , forse, sulla stessa sabbia su cui lei era adesso.
Il rito mattutino, spellava e denudava la sua anima,
togliendo strato dopo strato tutti i veli che la soffocavano rendendola insensibile.
Quel che rimaneva era un nucleo vulnerabile,
traslucido, perlaceo ma impalpabile,
l’essenza del suo io,
percepibile da Lei, solo per pochi struggenti attimi
in cui piangeva, non con gli occhi ma con tutta se stessa.
Grata per l’appartenenza al genere umano.
Disperata per l’ impotenza della sua stessa specie.
l.
Grazie.