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paola/2, o della bufala meritocratica
Ho da dire ancora, ho da dire altre cose, su questa storia di Paola che non è stata assunta dal Corriere della Sera dopo sette anni di contratti, perché le è stato preferito – dice lei – un «pivello» (vedi post precedente, che forse andrebbe effettivamente letto prima di questo).
Mi rendo conto di una cosa: che, semplificando, s’è creata una sorta di bipartizione.
Tu solidarizzi con Paola, tu non solidarizzi con Paola.
Di qua i sostenitori fiduciosi della variante appellistico-solidale della democrazia della paletta, quelli che poffarre, Paola sta facendo lo sciopero della fame e tutto questo è molto toccante, noi dobbiamo fare qualcosa, ed ecco la nostra solidarietà.
Di là, quelli che i giornali non sono ministeri e il posto fisso non è un diritto, e che cazzo vuoi se non hanno preso te.
Ora.
Giusto. Lo scrivevo anche nel post precedente a questo.
Nei giornali non si entra per graduatoria. Non si entra – con una definizione estremamente efficace di Matteo Bordone – a causa dell’accumulazione di un «monte-sfiga spendibile con l’ufficio del personale».
Però – sarò sincera – non mi piace neanche quest’esaltazione virile delle virtù autoregolatrici del mercato, con l’inevitabile corollario dell’affermazione che il principio per il quale Paola si sarebbe aspettata di essere assunta è nemico di qualsiasi principio meritocratico.
Come se – ancora una volta – la selezione di una persona per una posizione professionale potesse essere definita meritocratica solo perché la decide un direttore, per esempio.
Lo so, lo so: tranquilli.
So bene che anche se il direttore assume un cane, resta il fatto che l’unico titolato a decidere è lui.
Lo so alla perfezione; tanto che l’ho pure scritto nel post precedente a questo.
Ma a chi e a che cosa sia funzionale il «merito» che l’unica persona titolata a decidere chi debba andare assunto – il direttore – intende riconoscere con un’assunzione nessuno lo tiene in conto.
Intendo dire che se un giornale deve diventare allineato e collaterale a un qualunque potere (locale o nazionale), ad essere assunto sarà più probabilmente uno che è sintonizzato su una lunghezza d’onda compatibile con quella di quel potere.
Questa, miei cari profeti del mercato giornalistico, è l’unica meritocrazia possibile in quel particolare segmento di universo che si chiama giornale.
Nel giornale si controlla la gente; si controllano i pensieri della gente e si controllano i voti.
Nessun giornale, singolarmente preso, lo fa.
Ma tutti insieme, e in un arco di tempo ragionevolmente lungo, i giornali raccolgono lo spirito del tempo e lo convogliano verso nuovi sbocchi; gli creano un senso.
Non voglio dire che non si assumano mai persone tecnicamente capaci di svolgere il proprio lavoro.
Sostengo solo che è possibile che esse non siano assunte perché tecnicamente capaci, ma magari perché qualcuno s’era distratto; o perché senza un certo numero di persone tecnicamente capaci le cose non stanno in piedi.
E perfino la nostra Costituzione sa che «capace» e «meritevole» non sono sinonimi intercambiabili, tant’è vero che usa entrambi i vocaboli, evidentemente a significare sensi differenti.
Giusto che Bordone scriva che se Paola sarà assunta, beh, sarà a questo punto assunta non per merito ma per sciopero della fame, il che è effettivamente una causale alquanto singolare.
Ma vorrei che fosse chiaro che la definizione di «merito» è sempre, per forza, contingente, contestuale, e ideologicamente contrassegnata.
Soprattutto quando si tratta dei giornali.
E che nessuno mi dica che il giornale ha l’obiettivo di vendere, di far profitti.
Eventualmente, ha anche quest’obiettivo.
Ma il suo obiettivo primario è il controllo del territorio, come i predatori.
Prima di essere assunta dall’editore che pubblica il giornale in cui lavoro adesso, avevo lavorato in molti giornali, spostandomi di qua e di là.
Dalla chiusura del giornale che mi aveva fatta praticante, non m’ero mai rivolta alla testata nella quale lavoro ora.
In parte perché per me rimaneva «la concorrenza»; in parte preponderante perché avevo voglia di vedere cosa c’era in giro.
Avevo voglia di mettermi alla prova.
Ogni volta ricominciavo daccapo.
Piacere, Federica. Sì, ho lavorato qui e ho lavorato là. Ho fatto cronaca politica, giudiziaria, nera, sport. Sì, sono stata anche responsabile di settore. Sì, scusate: dov’è il Comune? Chi è il procuratore? Mi date la composizione della giunta, per favore? I numeri del giro di nera a chi posso chiederli? Quando sono state le ultime amministrative? Avete un elenco delle associazioni non profit? Chi sono i referenti dei sindacati? Le categorie? Gli industriali? Come funziona il sistema editoriale? Quanti sono i fotografi? E i collaboratori?
Ogni volta daccapo, a ricostruire millimetro per millimetro le complesse topografie del potere interno al giornale; a rubricare tipologie di colleghi catalogati in ordine di pericolosità.
A capire chi faceva cosa a chi, chi voleva usarti per fare cosa a chi, quali erano le armi che ogni nuovo contesto riteneva accettabile usasse un nuovo arrivato come me: il silenzio? Le rivendicazioni? La fermezza? E ogni volta, la decisione su quali di queste armi erano quelle che mi sembrava meglio difendessero la mia dignità.
Mi sono licenziata da posti che non mi convincevano, perfino da contratti a termine.
Ho conosciuto giunte di destra e di sinistra, pm che parlavano (pochissimi, e per pura vanità; dunque erano proprio quelli che avevano le notizie più sceme) e pm che tacevano.
Avvocati vanesi che se arrestavano un loro cliente avvertivano la stampa per vedere il loro nome sul giornale, ecchissenefrega se il loro assistito finiva in un macello.
Ho conosciuto gente distrutta che si rivolgeva a te per chiedere aiuto, e bastardi che pensavano di fregarti dandoti notizie la cui diffusione serviva solo a loro.
Gente che ti chiedeva di tenere nascoste le notizie.
Colleghi che tenevano nei loro cassetti notizie enormi perché potevano far male a qualcuno. Chiuse per anni, quelle notizie, dentro quei cassetti. Non si sa quante volte la minaccia di diffonderle sia tornata buona a qualche scopo che provvisoriamente fingerò di non riuscire a immaginare.
Quando sono arrivata nel giornale in cui lavoro adesso sapevo fare desk, disegnare pagine in tutti i principali sistemi editoriali usati in Italia, trovare notizie in ambiente sconosciuto e ostile, verificarle coprendo le mie tracce, coordinare gruppi di lavoro, inventarmi notizie dal niente quando le pagine rischiavano di rimanere vuote, insegnare ai miei colleghi che cominciavano allora quel poco che avevo imparato grazie ad alcun bravi maestri (altri non erano stati bravi per niente), riconoscere le buone doti tecniche e professionali di un collega la cui assunzione dovevo consigliare in ragione della posizione che occupavo.
Sapevo andare a casa delle madri e dei padri che avevano perso un figlio e fare domande che avevano molto più senso di «come si sente?».
Ci stavo male, ma se mi mandavano affanculo sapevo che una parte del mio stipendio mi veniva dato per riparazione a quel vaffanculo.
Che senso ha, mi domandavo, fare pezzi su queste cose?
E mi rispondevo che una città vuol sapere anche queste cose.
Sbaglia?
Va bene, sbaglia. Ma io sono pagata per trovare le domande giuste, e le parole giuste, e il modo giusto per rispettare le storie di coloro di cui parlo. Quello è compito mio.
Avevo imparato, mi avevano insegnato, a fare le domande come mezzo per cercare le risposte.
E avevo imparato che non tutte le risposte erano da scrivere. Non per motivi censorii, ma perché se tu vuoi che una persona ti dica qualcosa devi ascoltarla anche quando dice cose che non c’entrano un accidenti con la notizia di cui stai occupandoti. Perché prima di tutto viene la relazione umana, un legame fra simili che non puoi tradire maltrattando con aggettivazioni allusive o pesanti, con l’attribuzione di pensieri, con descrizioni immaginifiche.
Sapevo trattare con i politici, con il loro ego, con i loro uffici stampa, con i difficilissimi esponenti delle burocrazie amministrative.
Sapevo tenere le distanze.
Quando sono arrivata al giornale dove lavoro ora, insomma, sapevo fare parecchie cose, e avevo un curriculum lungo.
Avevo scelto di non fare la coda al giornale.
Pensavo che imparare cose fosse più importante.
E quando andavo chiedendo lavoro non dicevo «assumete me, per favore: ho un fratello handicappato, mia madre non è un fiore, ho avuto un’infanzia pesante e sono orfana di padre».
Dicevo: questo è il mio curriculum, questo è quello che so fare.
Se vi interessa, sono qui.
Una volta, il segretario di redazione di un giornale che mi aveva chiamato per una sostituzione estiva rispose alla domanda con cui gli chiedevo perché il contratto avesse una durata così breve sostenendo che lui aveva il compito di «accontentarci» tutti, noi questuanti.
Gli dissi che io non ero una persona da accontentare, ma una lavoratrice che veniva pagata per un lavoro che faceva.
Se all’azienda andava bene come lavoravo, che mi chiamasse.
Se non le piacevo, che evitasse di propormi contratti.
Via di mezzo non c’era. Non potevo essere brava ma disposta a far spazio a quelli meno bravi da accontentare, o poco brava e premiata per essere semplicemente senza lavoro.
Quando mi hanno assunta a tempo indeterminato – e qui torno a Paola – ne avevo dunque passate un po’, avevo maturato competenze primarie ma anche accessorie.
Eppure, molti colleghi di quelli che erano rimasti per anni a collaborare con la testata che mi stava assumendo senza avere io fatto la coda si irritarono e considerarono ingiusta la mia assunzione.
Fui oggetto di commenti piuttosto pesanti. Fui considerata un’usurpatrice.
Paola stessa, probabilmente, avrebbe potuto dire – ma la mia (attenzione) è solo un’illazione – che ero una «pivella».
Poi, quando venni promossa – prima donna in 140 anni di storia di quel giornale a ricevere un grado – mi accadde di sentirmi dire che era normale che i colleghi mi detestassero, perché io ero stata promossa e loro no.
Psicoanaliticamente non fa una grinza.
A parlare, però, non era il mio analista, ma un mio superiore.
Uno che in teoria avrebbe dovuto tutelarmi.
Adesso mi faccio una domanda, però: se, per pura ipotesi di scuola, a quel tempo ci fosse stata una giunta comunale che considerava quel giornale come il suo house-organ, il suo zerbino maculato su cui, stofinando le scarpe, scaricare e mimetizzare l’ipotetica merda che si fosse intrufolata nelle asperità delle suole, chi meritava di più?
Io che avevo fatto tutte quelle cose, o uno che s’era messo pazientemente in coda e magari, grazie al benevolo interessamento di un politico qualunque, garantiva imperitura gratitudine alla Causa e ai suoi rappresentanti?
Lo so che sono stata lunghetta.
Però, per spiegare che questa cosa della meritocrazia è contestuale e contingente dovevo portare un esempio che conosco bene.
Ora.
Paola.
Eravamo rimasti alla divisione fra supporter facebookiani-twitteriani-blogghiani della democrazia diretta «petizionaria»; e sani aziendalisti tutti d’un pezzo, sostenitori del sacro e inequivoco principio della meritocrazia.
Non sembra abbastanza chiaro che in mezzo c’è un sacco di roba che questa semplificazione ignora?
Non sembra evidente che se non ci piace il modo attraverso il quale abitualmente si accede nei giornali – la «coda» – dovremmo evitare di scagliarci contro i «pivelli» che non sanno fare un accidente e ci stanno rubando il posto?
E – sull’altro versante – non sembra sensato che invece di gridare all’assassinio della «meritocrazia» causa scellerata idolatria del posto fisso, si ragioni sul senso del merito (quantomeno) nel giornalismo?
Sallusti – faccio per dire – merita o no? Non è forse l’uomo giusto al posto giusto?
Non dovremmo tenere in considerazione l’argomento che a uno chiunque di noi, o anche alla maggioranza di noi, Sallusti sembri non «meritevole»: perché chi stabilisce – secondo le proprie convenienze – le funzioni di Sallusti lo giudica legittimamente «meritevole».
Il merito non è la stessa cosa per tutti, a tutte le latitudini, in tutte le situazioni, e qualunque sia l’obiettivo di un’azione.
Qui, per la miseria, sembra che ci sia un sacco di gente che ha un’idea precisa e matematicamente ineccepibile del «merito»: penso alle persone della Rena, la Rete per l’eccellenza nazionale, ma anche ai portabandiera di quella retorica giovanilistico-meritocratica che vorrebbero il rinnovamento perché i vecchi c’han portato alla rovina.
Penso a coloro che fanno, per esempio, dell’audience la misura del merito, e poi s’incazzano come animali quando Berlusconi vince le elezioni.
A quelli, insomma, per i quali la loro audience è sacro bollino doc di qualità; ma l’audience di quelli che loro combattono con tanto coraggioso sprezzo del pericolo è pura deiezione di quadrupede.
Perché bisogna mettersi d’accordo, insomma: se l’audience è un criterio su cui si misura l’eccellenza, allora i voti sono la scala graduata del merito politico.
La frase non piace?
Oh che peccato.
Solo due righe, da riprendere domani a neuroni risciaquati. Non è per nostalgia del proporzionale che sono d’accordo con te: la verità, per l’accesso alla nostra professione, non può stare di qua o di là come nel maggioritario. Quindi.
Sì. Uno che ha lavorato per sette anni ben oltre i limiti dello sfruttamento ed è stato illuso tante volte ha maturato una sorta di diritto al riconoscimento della professionalità acquisita. Ha fatto la “coda”, come dici tu, sul campo. Spesso i collaboratori e i precari tengono aperto il giornale e ci pagano anche un po’ dello stipendio a noi capi. Bisogna anche dire che non è con gli scioperi della fame e i pietismi che ti fanno il contratto. E’ una cosa che all’editore non piace, fa pensare a prospettive di rivendicazioni, ai reintegri ope legis, e ai direttori, si sa, non piace vedersi imporre le assunzioni e sentirsi con le mani legate. D’altra parte…
Si. La meritocrazia dovrebbe avere (“deve” avere, teniamo duro) il suo peso, ancorché riparametrata in base alla funzionalità rispetto all’ambiente e alle necessità del giornale. Serve un idiota ben introdotto, si assuma l’idiota. Brutale ma razionale. A patto però che ogni tanti idioti, nipoti, zerbini e protetti si assuma anche qualcuno moderatamente bravino. Ci si prenda la responsabilità di dire: tu funzioni ma non potrò mai assumerti, come collaboratrice sei un missile ma assunta saresti di peso e poco “pratica”. Così una si fa due conti e poi decide.
Io ho avuto una fortuna sfacciata. Finito il liceo, subito alla scuola dell’Ordine (quella di Milano, la prima: allora non era richiesta la laurea anticipata), due stage gratis e poi assunto subito da un direttore che ha avuto coraggio, in una grande casa editrice. E quando sei dentro la Fortezza Bastiani sei a posto, poi devi solo decidere tu se fermarti o cambiare. Io ho cambiato tanto e spesso, e continuo a farlo, dentro e fuori dal mestiere.
Bè, tutte le volte, in tutti i posti, qualunque curriculum ti accompagni, sei un barbaro invasore, devi dimostrare che ci sai fare, ti fanno pesare di aver portato via il posto a uno che lo aspettava, c’è diffidenza, l’accettazione arriva solo dopo molto tempo, e non è affatto scontata. L’effetto corporazione colpisce chi a 40 anni è ancora lì col cappello in mano, ma anche chi a 22 aveva già il posto fisso. Che è meglio, va comunque detto.
Qualche settimana fa, proprio al Corrierone, De Bortoli ha dato la sveglia alla redazione: ha detto siete vecchi, smettetela di difendere l’orto che tra un po’ si secca e non dà più neanche rape. Non so, mi sembra che la spinta propulsiva si sia esaurita e – come hai sottolineato tu – facciamo un sacco di altre cose invece di quello che sognavamo da piccoli. Quello per cui siamo qui ancora oggi a agitarci e a star svegli di notte.
dato l’assunto di partenza sul ruolo reale della stampa… metti che legge questo post un lettore del tuo giornale, sbaglio, o la reazione più auspicabile, da parte sua, dovrebbe essere qualcosa come “ah, servono a questo? al controllo del territorio? oh che scemo sono stato a pensare che, in qualche modo, ci fosse una spinta al diritto d’informazione! e invece è solo una scusa! perfetto, da domani smetterò di comprarlo”?
ahime, cara federica, tutto ciò non fa una piega. Pane al pane e vino al vino, come sempre! Mirabile ritratto di cosa vuol dire fare il giornalista…
sono capitato giorni fa’ ad una festa a Roma con molti “intellettuali”, “giornalisti”, e “critici”, più o meno di grido. (io ero lì quasi per caso, direi, comunque sicuramente ero un pesce fuor d’acqua).
Però ho avuto modo di farmi un bel quadro di quel mondo lì.
A parte la novella scrittrice che tampinava i boss della casa editrice ed in seconda battuta, il noto critico letterario, in una scenetta degna di una piece teatrale, ebbene, ho “carpito” una discussione tra alcuni giornalisti/e che parlavano di un loro noto collega passato a miglior vita pochi mesi fa’ dopo lunga malattia. Ebbene ho ascoltato una tale sequela di cattiverie (vere o folse, naturalmente non saprei) che sono rimasto sbalordito. La maggior parte toccavano il “personale”, persino una sua ex ripiena di fiele e di veleno, ma ogni aspetto della sua vita professionale era demolito con pochi semplici ma feroci aggettivi. Il tutto detto senza pietà in “camera caritatis” , cioè al riparo di orecchie indiscrete (salvo le mie che però nel frangente ero diventatoo trasparente come una mosca). Al di la del giudizio sulla specifica persona, mi ha colpito tutta questa furia verso un collega defunto a fronte delle ipocrite iperboli da tutti proclamate in pompa magna al pubblico a cadavere ancora caldo.
Il mondo del giornalismo è una giungla come tanti altri mondi professionali. Eppoi ci sono gli editori, la proprietà, i poteri forti, le lobby, ecc ecc..
Cose che spieghi benissimo nei tuoi discorsi, di cui apprezzo soprattutto la chiarezza e l’onestà intellettuale (dote oggi assai rara). ciao Alex
Grazie, Alex e Stefano.
Avrei da dire, ma non ho tempo.
Una sola cosa a Matteo: non è il giornale dove lavoro io a voler «controllare il territorio»; sono i giornali in generale.
La responsabilità non è di UN editore, di UN direttore, di UN giornalista.
È collettiva, pesa e grava sulle spalle di ciascuno di noi come pezzo di un mondo.
Non sono io a scoprire altarini, Matteo.
Non parlo del MIO giornale in questi termini, se leggi il post.
Dico che il ruolo dei giornali è questo.
È un’opinione mia che riguarda il – direbbe qualcuno – sistema.
Ma stando al calo delle vendite dei giornali potrebbe anche darsi – ipotesi non sostenuta da niente – che a pensare in questo modo non sono la sola.
sì, sì, avevo capito che riguardava TUTTI.
Ma non fa un po’ troppo “tutti predatori, nessuno predatore”?
non fa un po’ troppo “è il SISTEMA, bellezza, e tu non puoi farci nulla”?
O se sono, diciamo TUTTI, se la realtà è questa, non è fesso chi CONTINUA a leggere giornali, alimentando il SISTEMA?
(mè partito lo “shift”)
No, non lo fa. Non fa «tutti predatori, nessuno predatore».
Conosco moltissimi giornalisti che tentano di fare il loro meglio per fare i giornalisti.
Quanto al resto, Matteo, io credo che occorra avere la pazienza e la saggezza di ripartire dalle cose minime, piccole; dalla condivisione di percorsi minuscoli, per ricostruire un significato condiviso e comune.
La mia opinione è che non basterà un paio di generazioni per ridare senso alla parola «politica».
Siamo troppo immersi nel brodo caldo della nostra democrazia della paletta.
Siamo troppo inconsapevoli del fatto che firmando appelli non risolviamo un accidenti.
Siamo troppo felici di delegare a singoli «testimonial» proprietari del loro «brand» il compito di parlare al posto nostro, e manco ci importa quel che dicono, perché quello che chiediamo loro di mobilitare è la nostra pancia, quella che reagisce alle «narrazioni», alle suggestioni, e non quella che si occupa della paziente ricucitura di alleanze politicamente significative.
I giornali fanno parte di questo mondo.
Non vedo come potrebbero esserne estranei.
E mi viene francamente da ridere quando sento dire che c’è il pluralismo perché ci son tante testate; mi vien da ridere quando si dice che una maggiore diffusione dei quotidiani equivale a una maggiore diffusione dell’informazione.
Sarà che non ho la vostra visione del mondo, che sto sempre a casa, che sono anni che non mi confronto con colleghi in ambienti di lavoro, che alla fine ho smesso di illudermi.Ma sto imparando che spesso ci si accanisce intorno ad un effetto e non alla sua causa, talvolta brutale o lampante, talmente in vista, come in questo caso, che gli addetti ai lavori che l’hanno sotto gli occhi sembrano non vederla.Che io sappia, da sempre,anche negli ambienti familiari,ovunque esista una scala gerarchica di competenze, ci sono invidie, fazioni, e doppi giochi, non mi meraviglio affatto. Non essendo dell’ambiente, non capisco perchè un giornale dovrebbe comportarsi diversamente da quanto è ormai una consuetudine in ogni ambito lavorativo, pubblico o privato che sia, che affonda le radici nella notte dei tempi. La stratificazione di interessi personali di editori o i loro direttori ( che nelle grandi testate sono gli stessi,che avete trovato già ai loro posti all’inizio della vostra professione) e che girano da una testata all’altra come fossero su i cavalli diuna giostra,la politica che trattano con riguardo perchè non tolga le sovvensioni all’editoria ( è forse per questo che non importa la tiratura?),e andando a ritroso nella storia del nostro paese si possono trovare tutte le ragioni e le cause dello status di intoccabilità del giornalismo.
In un paese, che non era ancora nazione italia,si sono addomesticati e abituati i fedeli e quindi i cittadini alle indulgenze plenarie, ovvero assoluzione dalla colpa dei peccati commessi con il denaro,predisponendolo quasi geneticamente al degrado morale cui oggi assistiamo. ..sto finendo la pila.. continua…
In una nazione abituata a pensare che tutto si può comprare, tutto è in vendita, anche la grazia,è fisiologico nel 2010 ritrovarsi con un imprenditore come presidente del consiglio. Ma nel caso del giornalista,se io lo fossi, credo mi batterei contro lo snaturamento della professione e non della meritocrazia.Il degrado morale,secondo me, è vedere ridotta la maggior parte di voi a meri scribacchini,chiusi in redazioni a commentare con parsimonia o misurando i termini da usare nei confronti delle dichiarazioni di politici o amministratori,ridotti a leggere le notizie dall’ansa.La notizia che fine ha fatto? Il giornalista non dovrebbe essere l’investigatore della comunità, colui che va in cerca della verità,che fa domande scomode, che insegue i politici ponendo domande che ci facciano capire? Il giornalista che aveva il coraggio di andare lontano per cercare risposte in prima persona è una figura che non esiste più? L’unico rimasto a fare domande scomode in TV è Valerio Staffelli di striscia? Non so cosa pagherei per vedere un politico corrotto messo in difficoltà da un giornalista televisivo che ha il coraggio di porgli domande non concordate preventivamente.
Ma il ripristino del valore giornalistico, di cui non vedo l’ombra, credo si possa raggiungere solo stando all’interno di un giornale, anche ricoprendo cariche inferiori al merito.
E sempre dall’interno, secondo me, che avvengono i cambiamenti più eclatanti, non esplosioni,ma erosioni, che cambiano la storia del mondo. C’è un ‘universalità che accomuna avvenimenti che sembrano differenti tra loro,per esempio,la grande muraglia non è servita alla cina per proteggersi dal nemico, perchè un ufficiale cinese ha aperto le porte ai mongoli,l’impero romano è caduto quando è divenuto troppo grande, potrei citare una marea di casi storici,o parlare di scienze, di buchi neri che stanno al centro delle galassie. Per tornare alla situazione politica attuale,non è la sinistra che farà tramontare la stella di berlusconi,ma il co-fondatore del suo stesso partito, quindi ancora una volta, il cambiamento avverrà partendo dall’interno e paradossalmente se volessimo un cambio nel pdl, dovremmo votarlo,per guidarlo al cambiamento. Ultima cosa: l’audience rileva un pubblico televisivo, che mediamente non legge i quotidiani, svincolando questi ultimi dal seguire le regole del mercato, liberi di applicare la meritocrazia senza fini utilitaristici. scusatemi se ho detto delle c… ciao l.
Molto interessante, non fa una piega che è una, però credo che tu abbia perso di vista il punto della questione. Paola Caruso si è incazzata perché hanno più o meno messo in redazione (forse si, forse no, qua la situazione non è chiara e già la non chiarezza è sintomo di qualche porcheria, sempre secondo me) una persona uscita da una scuola di giornalismo. Vivo sulla mia pelle questo stesso problema, cioè qua l’Ordine sta sponsorizzando chi esce dalla sua scuola di Urbino, gli altri possono crepare e infatti crepano. D’altronde se paghi diverse migliaia di euro per fare due anni di scuola (se penso a chi ci insegna mi vengono i brividi) è ovvio che alla fine ti aspetti quanto meno un aiutino che infatti puntualmente arriva. Ora l’Ordine deve decidere, o nella professione si entra solo con le scuole e allora tutti gli altri fuori ma fuori davvero e niente più tassa annuale di iscrizione o si accetta il fatto che esistano due modi diversi per accedere alla professione senza far sentire quelli che vengono “dalla strada” dei figli di un Dio minore.
Marina, benvenuta.
La questione, però, è più ampia. Se continuiamo a dividerci fra noi non arriviamo da nessuna parte, e infatti stiamo per sfracellarci su un muro (molti si son già metaforicamente sfracellati, del resto).
Non accetto nel modo più categorico – indipendentemente da ciò che individualmente si possa pensare – che si consideri ammissibile una sorta di crociata contro colleghi che NOI giudichiamo inferiori.
Ho visto cani uscire dalle scuole di giornalismo, cani salire dalla strada.
Se la situazione è quella che tu riassumi – Paola si è arrabbiata perché al posto suo hanno assunto un collega che veniva dalla scuola di giornalismo – allora mi espongo fino in fondo e dico questo: che Paola, se questo è il suo punto, ha torto marcio.
Capirei se si incazzasse col Corriere per il fatto che – ma io non so se sia davvero andata così – per sette anni è stata di fatto una lavoratrice dipendente a pieno titolo, e invece è stata inquadrata con una fattispecie contrattuale non corrispondendte alle sue mansioni.
Se s’incazza col collega, Marina, ha torto.
Marcio.
Le auguro comunque di riuscire a ottenere quel che vuole, qualunque cosa sia.
Ciao Federica,
innanzitutto mi scuso, sono entrata qua (dal bloog di Blimunda) senza neanche dire buongiorno. E’ che questa vicenda mi prende molto perché vivo anche io sulle pelle lo stesso problema. Ad ogni modo no, nessuna crociata contro un collega, e si molto incazzata, ma con l’azienda.
L’ho già scritto commentando qua e là e lo riscrivo. Stante che le aziende comunque cercano di ottenere il massimo con il minimo (pagine intere ben fatte e piene di notizie con il minimo sforzo economico), quello che vedo oggi sono tanti che arrancano da anni senza nessuna tutela, un sindacato che latita e discute accanitamente sull’integrativo per quelli che inseriscono le notizie on line e un Ordine che latita ancora di più e sforna dalle sue carissime scuole truppe di professionisti da piazzare sul mercato.
Non lo dico così per dire ma per averlo vissuto. Quattro anni fa un ente pubblico mette a concorso (a tempo determinato) un posto all’ufficio stampa e fra i titoli che davano 3000 punti c’era appunto l’aver frequentato una scuola, avere nel curriculum anni e anni di esperienza negli uffici stampa di altri enti valeva punti 0. Ovviamente ha vinto una persona che veniva dalla scuola dell’Ordine. In sostanza un do ut des fra Presidente di quell’ente e Presidente dell’Ordine. Uno scambio di favori.
Detto ciò esiste anche un altro problema del quale, insieme a colleghi precari abbiamo molto discusso, ed è quello della non solidarietà dei redattori. Noi siamo carne da macello, lavoriamo come schiavi ma nessuno è disponibile ad alzare un dito per noi. Una collega di un quotidiano ha fatto vertenza e i redattori convocati dal giudice del lavoro hanno giurato il falso, solo uno ha detto “si forse”. Nel mio giornale è in corso una ispezione Inpgi e i due ispettori che mi hanno “interrogata” nel luglio scorso, fra le varie cose hanno notato con molto rammarico che non c’è solidarietà nei nostri confronti. Insomma si nega l’evidenza o meglio si proteggono il proprio stipendio e i propri privilegi. Cioè se tu stai seduto in redazione a fare i titoli e a passare le pagine chi cazzarola le trova le notizie e chi li scrive i pezzi? Babbo Natale?
Io credo che se ci guardassimo negli occhi e ci mettessimo a discutere seriamente e serenamente forse troveremmo il modo di lavorare -tutti- ad una cifra onorevole e onesta per tutti. Così ci sono quelli che si prendono ottimi stipendi con annessi e connesi (tipo Casagit) e altri che ricevono cifre ridicole. Anche perché ragazzi siamo tutti sulla stessa barca e le aziende traballano e scricchiolano, così adesso tocca a noi, poi toccherà a quelli che si credono assunti/sistemati/intoccabili. L’unione fa la forza. Adesso invece, proni alla volontà aziendale, i vertici ti dicono “se rompi quella è la porta che vedi lì, di ragazzini che scrivono gratis o per 2 euro ce ne sono a carriolate”.
L’Ordine sa tutto questo ma fa finta di niente e anzi, tanto per incasinare la situazione, ogni anno accoglie nelle sue Scuole un plotone di persone da immettere poi sul mercato in aperta e diretta concorrenza con tutti gli altri.
Il resto un’altra volta, oggi sono un po’ incasinata per vari motivi. Grazie per l’accoglienza, l’ascolto e la risposta. Complimenti per tutti, blog, curriculum, lavoro… una cosa sola ‘sto font piccino mi sta cecando… ma è un problema mio, so’ vecchia.
Il font è un problema, sì.
Puoi allargare la visualizzazione, forse.
Nel merito, Marina: nel 1996, mi pare, insieme a un collega aquilano che si chiama Paolo Pacitti, fondammo il primo coordinamento disoccupati e precari della Fnsi.
Conosco alla perfezione ciò di cui parli.
Ma – credimi – il nemico non sono io che ho un contratto a tempo indeterminato.
Continuare a pensarla così sarà la nostra rovina.
Quanto alle raccomandazioni, come negarle?
Ti domandi: ma chi alza un dito per noi?
Io.
Lo giuro.
Ma che nessuno mi venga a chiedere di alzare un dito per i colleghi precari che sputano addosso agli altri colleghi precari: perché questa si chiama guerra fra poveri, porta alla rovina, ed è ciò che fa gioire gli editori.
Cara Federica,
sono assolutamente d’accordo. Tu con contratto e io free lance per forza siamo le parti di una stessa cosa, siamo due entità che ognuna a modo suo contribuisce alla realizzazione di una pagina quotidiana. Io dai miei colleghi con contratto ho cercato e chiesto solidarietà, alcuni mi hanno detto “c’hai perfettamente ragione, ma non mi posso esporre in prima persona”, altri mi hanno risposto “non rompere”, il mio capo servizio mi ha detto “se ti va bene è così, sennò cercati un altro lavoro”.
Paola Caruso ha estremizzato, ma vedi un po’ che adesso parlano tutti della questione. Io mi sono solo incazzata fra le mura di casa, sfracellando le palle a mio marito, sant’uomo.
Abbiamo uomini pazienti.
Il mio precariato è durato sette anni.
😉