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l’«ecco», il «credibile» e le tormentose procelle
Non l’ho vista dal vivo, la copertina dell’Espresso.
Ma, stando a ciò che riesco a giudicare guardandola su questo monitor, a me sembra che Saviano non abbia questa faccia qui: scavata, grigia, con occhiaie nere, sofferente; né quest’occhio protruso.
È un volto trasformato da un effetto-Dragan, tipo, cioè una lavorazione «patetizzante» dell’immagine come usa fare Andrzej Dragan.
Mi è comunque ovvio che non è stato lui a dire al settimanale «ehi, per favore fatemi venir fuori un volto doloroso, grazie».
Però, io mi domando qual è il motivo per il quale – per essere considerato credibile, o anche più credibile – uno debba apparire tormentato, devastato.
Perché l’immagine di un volto liscio, sereno, sorridente non piace ai photoeditor, ai direttori dei settimanali?
Incidentalmente, sottolineo una cosa che nel giornalismo di questi tempi tira moltissimo: il titolo con un «Ecco perché…», »Ecco cosa…», «Ecco chi…».
In realtà, il titolo è un’ottima opportunità per dare la notizia.
In questo caso – dò cifre a caso – si poteva anche dire: «Mafia al nord, venti condanne». Con la foto di Saviano e tutte quelle righe di sommario in rosso a disposizione, spazio per far capire meglio ciò di cui si trattava ce n’era a volontà.
E invece no.
«Ecco».
Perché non conta la notizia; contano l’area di senso e l’area «politica» nella quale ci collochiamo.
Mica ci interessa realmente sapere perché Maroni sbaglia: non ce ne importa niente, noi sappiamo già che stiamo con quel volto scavato, con quelle occhiaie.
È l’«ecco» ciò che ci interessa.
«Eccoci», siamo qua, ci siamo anche noi, questa è la nostra «comunità».
L’«ecco» è una promessa. Se apriamo il giornale capiremo.
L’«ecco» sposta i contenuti al tempo futuro, e l’immagine crea il meccanismo di identificazione nel tempo presente.
Non si tratta che un certo tipo d’immagine non piaccia a photoeditor o direttori, ma sul far leva sui sentimenti perché, specie in questo periodo, la gente è più portata a reagire, a farsì trascinare dal lato emozionale, piuttosto che soffermarsi a riflettere. Fare diversamente da questo modo, non significa essere insensibili, anzi; ma c’è differenza tra essere sensibili ed essere sentimentali.
È quel che dico.
Per essere credibili bisogna figurare tormentati.
E la scelta non è del soggetto fotografato, ovviamente.
(A proposito, M.T.: il tuo era il quattromillesimo commento al blog. Tondo tondo!).
Per prudenza mi sono trattenuto finora da commentare con banalità, ma questo lo devo proprio dire: ti leggo sempre volentieri perché mi fai scoprire pieghe nella realtà che al mio occhio inesperto (superficiale?) non sarebbero mai apparse altrimenti; perciò grazie.
Ciao, Camillo.
Grazie, benvenuto.
Già, puntuale come al solito, Federica.
La cosa pericolosa di operazioni come quella di Saviano-Fazio è che si tende a trasformare il problema trattato nel tassello di un gioco di società di appartenenze da svolgersi sul divanetto dei buoni. Il problema, a questo modo, non viene sollevato o sviscerato, ma snaturato e banalizzato, in qualche modo anestetizzato.
Sono completamente d’accordo, Sandro.
Un gioco di società di appartenenze da svolgersi sul divanetto dei buoni.
Non avrei saputo dirlo meglio.
E aggiungo: in questo modo è finita anche la storia di Paola Caruso, pretesto per discutere – ahi, quante volte a sproposito, ahi quante volte in modo «ortodosso» e fedele alla linea – di precariato come fatto generazionale, e non come problema relativo ai rapporti di potere e alla residualità del lavoro.