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io sono tutta lì, dentro quella memoria
Il mio amico all’ospedale non era arrabbiato. Mi è sembrato che fosse abbastanza contento della visita, e io sono stata contenta di averlo incontrato.
Era padrone della situazione – che in effetti esige quel tipo di mansueta pazienza che la vita non dovrebbe chiedere a nessuno senza almeno lasciare in dono la pietà di una temporanea anestesia emotiva – ed era anche padrone di sé.
È ricoverato al piano di sotto del reparto dove scoprimmo che mio padre era destinato a morire presto; cosa che in effetti accadde tre mesi e mezzo dopo. Altrove.
Non c’è niente che possa rimuovere o alterare la memoria carnale delle cose vissute.
Questo è un periodo della mia vita in cui il mio corpo chiede spazio, non accetta più di vivere attraverso la mediazione del cervello, a meno che questo non sia necessario per ragioni di urbanità, e mi domanda di vivere in armonia con me e con il mondo.
Ho smarrito l’attrezzatura della resistenza a oltranza, non mi ricordo più dove l’ho lasciata; da qualche parte deve pur essere, ma non la trovo.
In questa esposizione, in questa fragilità, anche la memoria è diventata fisica, non transita più per i nessi tra causa ed effetto.
Perde ogni senso narrativo, esce dalla sequenza dei fatti.
La memoria la sento addosso come se fosse un sentimento che percorre la superficie della pelle; e la sento dentro come se fosse un nuovo organo interno a cui affluisce repentinamente una grandissima quantità di sangue.
Io son tutta lì, dentro quella memoria.
In quel corridoio, oggi, ero ragazzina.
Avevo il volto liscio e gli occhi pieni della speranza selvaggia che ogni tanto ritrovo con sorpresa nelle foto di quel tempo.
Avevo i vestiti larghi per nascondermi al mondo.
Ero carica di peso, angosciata; consapevole del ruolo di donnina con la testa sulle spalle.
Ero l’adolescente infrangibile e coriacea che non sentiva le martellate sui menischi né le coltellate né – direbbe qualcuno – le rasoiate ai tendini, e camminava camminava camminava.
Bob Aggiustatutto che riparava i cuori spezzati e i tubi dell’acqua e faceva le denunce dei redditi studiando le istruzioni.
Ho amato alla follia quell’adolescente che tutti volevano onnipotente.
Ma c’è voluto tempo.
L’ho amata solo dal momento in cui, diventata io una ragazza e poi una donna, l’ho presa in braccio e cullata come si fa con i bambini, cantandole canzoncine d’amore e leggendole storie di animaletti che vivevano in paesi fatati.
L’ho vista veramente solo allora.
Era bellissima, cara.
Mi guardava incredula. Ti ho trovato, mi diceva. Allora c’eri, da qualche parte c’eri.
C’era qualcuno che poteva risucchiare la pena dal mio cuore, dirmi «non ti preoccupare: sono qui per te».
Nel corridoio ero quella Federica piccola là, e non avevo ancora incontrato la sua mamma omonima, me.
Ero sopraffatta da un carico di piombo, terrorizzata, e non sapevo se avevo paura per mio padre, per il mio amico, per mio fratello a cui stavano cercando di far passare l’ennesima inspiegabile altissima febbre, per mia madre e la sua misteriosa malattia autoimmune oppure il suo infarto; per me che non ne potevo più di ospedali, di volti grigi, di altalene fra rosa e nero, di impasti fra cioccolata e merda, di cocktail di Coca cola e sangue.
Ogni persona allampanata e incurvata che entrava in ascensore era mio padre, non importa se era una donna.
Quando le persone stanno male hanno negli occhi un terrore che le rende estranee ai luoghi.
È come se capissero che nessun luogo sarà più per loro.
Guardano ogni cosa con un disperato affetto da bambino che a volte si trasforma nel rabbioso dolore di chi sa che il futuro è corto e vorrebbe vomitare quella maledizione addosso a qualcun altro, a chiunque, a tutto il mondo.
Chi sta male è docile perché ha bisogno degli altri, e furioso perché ha bisogno degli altri.
E nessuno gli toglie la pena, la paura, lo strazio di sapersi inutile a se stesso.
Chi sta male pende dalle labbra di medici che ogni giorno vedono vite volare e allora regolano i loro conti chiudendo i buchi del cuore con il silicone.
Ascolta le parole dei medici senza capire niente fino in fondo, come un bambino davanti alla scena più forte di un film dell’orrore.
Accetta le affabulazioni, i non detti, le cose poco chiare.
Chi sta male aggrappa le sue manine bianche, magre e punteggiate di lividi alla corda invisibile e tenue che parte dalle mani dei medici, e penzola muovendo i piedi.
E ama i medici, e odia i medici, come un uomo nel fiore dei suoi anni odia una donna vezzosa che lo tiranneggia. Ma per una donna vezzosa che se ne va altre solide e sensuali ne arriveranno.
Coi medici no. C’è sempre un medico che è l’ultimo, e non l’hai scelto tu.
Nella mia vita si sono stratificate alcune cose chiare, finalmente.
Cose inequivoche e calde su cui costruire.
Una di queste è la consapevolezza disarmante che tutte queste cose io le ho imparate da piccola, le ho viste, le ho prese fra le mani rigirandole per osservarle dai quattro punti cardinali e in tutte le condizioni di luce.
Le ho messe in una scatola, e ho preteso di averle dimenticate perché non avevo la forza di ricordarle, non avevo le parole per dirle, e non avevo nessuno che mi avrebbe ascoltato.
Potevo solo vivere e andare in cerca di altre cose, pensando che la memoria appartenesse al cervello e si potesse tenere nello stomaco in un fusto a tenuta stagna.
Vivere, fare, vedere, leggere, provare, correre, aiutare, soccorrere.
Poi, quando arriva il giorno in cui il fusto nello stomaco minaccia di scoppiare e non sai neanche perché, puoi solo chiedere finalmente aiuto tu.
E comincia una strada, salite e discese, e belle curve, e scivoloni e cadute, e alberi che fanno ombra e sole che scalda e un po’ ti arrostisce.
Tu pensi che le cose passino dal cervello.
E invece un giorno ti accorgi che fino a che non fai pace con la carne la vita non è vita.
E la memoria non è nel cervello, e non è nel fusto che minacciava di scoppiare: è in te, è te, ha il tuo odore, le tue forme, la consistenza della tua carne.
Tu sei quella memoria più tutto il resto; più il presente e le meraviglie che ti aspettano nel futuro.
Ti fa piangere e ti tormenta, ma puoi abbracciare il piccolo essere umano che sei stato ogni volta che vuoi, ogni volta che ti chiede aiuto.
Stasera, per esempio.
Per colpa di un corridoio di ospedale, e forse per colpa di altre piccole cose enormi, intense, profonde, che mi sento moralisticamente obbligata a considerare leggére sapendo che mi dico una bugia.
Sei bellissima, qui. Condivido in fb, da leggere.
Grazie.
c.
Clelia…
Sento così tanto dolore e così tanta comprensione, qui dentro, tanta pietas, ma anche così tanta capacità di rendere visibile e comprensibile e naturale e vicino a tutti il tuo sguardo sulla nostra umanità debole, che se non sembrasse un termine abusato e fuoriluogo la chiamerei arte, non solo mestiere delle parole.
Anche oggi ho imparato a guardare con altri occhi. Eh. Potresti per favore continuare a insegnare a chi si limita a inventare immagini, se ne innamora e poi se le rosola sulla sua paginetta aspettando l’applauso che però sotto ci dovrebbe magari essere qualcosina di vero davvero? Per favore?
Non so replicare, Stefano.
Non devi, non è richiesto. E’ un omaggio ammirato per cosa e come scrivi.
Federica sa quel sapere che ti fa sentire il rumore della goccia di gelato che cade a terra, perchè la tua lingua è stata fermata da un pensiero troppo lungo, troppo più lungo del suono del corpo che se ne stava tutto adagiato sul gelato. E rimbomba quella goccia, fa tremare il pavimento, un passo indietro e la testa che si irrigidisce sul collo. Confidiamo nei contenuti dei pensieri, nelle rappresentazioni ordinate che ci offrono, nelle caselline precise che dispongono su un tavolo (pensiero falegname, come Sangiuseppepadrefinto). e ci applaudiamo da soli. Ma non è una questione di contenuti e neppure di forme. E’ l’aria che si tende intorno, disposizione ed orientamento, pareti che sono mura o limiti dello sguardo. Una passo più avanti della percezione, dove il pensiero è goffo nello stare dietro al saltellare del corpo, anche quando fa male, infilza, brilla di brace. grazie Federica, v.
Non mi piace l’esposizione dei visceri; non sono in grado di credere che vomitare fuori il proprio dolore abbia qualcosa di terapeutico, se non per chi – leggendo – ritenga di essere più fortunato di chi scrive, e ami coltivare l’illusione del proprio privilegio utilizzando qualunque mezzo a disposizione, lecito o illecito, morale o no.
Non è umano usare la schiena piegata dal dolore altrui come un gradino che avvicina al paradiso. È da bastardi, da bestie. È chiamarsi fuori fingendo di implicarsi, e dunque è anche da ipocriti.
Mi piace se si sente il rumore della goccia di gelato che cade; perché io non voglio far cadere gocce di sangue, non cerco la scorciatoia della pietà, non l’ho mai cercata.
A modo mio, non ho nemmeno mai cercato la condivisione, la compenetrazione, la fusione.
La fusionalità mi fa male; è vita per procura.
Ho sempre cercato solo la spina che entra nella presa.
La spina sa di essere diversa dalla presa, e salvo disguidi non si fonde nell’alloggiamento.
Però se i contatti funzionano, e se il voltaggio è corretto, da quell’incontro nasce qualcosa. Da maneggiare con cura, come tutte le cose preziose; ma vitale, essenziale.
Non c’è gerarchia fra spina e presa.
La spina non dice «poverina» alla presa, né accade il contrario.