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il digiuno di paola, la solidarietà e i cronisti 2.0
Apprendo dal Post (qui) che Paola Caruso, una giornalista del Corriere, è in sciopero della fame (ma ha, fortunatamente per la sua tenuta fisica, sospeso lo sciopero della sete) per protestare perché dopo sette anni di lavoro al giornale – con contratti di collaborazione, mi è parso di capire – ora che, in pieno stato di crisi, s’era liberato un posto a tempo determinato, quel posto non è stato occupato da lei ma da un allievo di una scuola di giornalismo.
Paola lo definisce «pivello».
Di questo fatto si legge su molti blog: Macchianera, Ibrid@menti, Piovono rane, Vittorio Pasteris, Il nuovo mondo di Galatea, e in molti altri luoghi, compreso – ovviamente – il blog di Paola, Diario di uno sciopero.
a paola auguro ogni bene
Io mi auguro che Paola riesca a custodire la sua salute e la sua energia, contemporaneamente risolvendo – lei e tanti, troppi altri – il desolante problema della stabilità della sua posizione professionale.
Da qui le mando il mio sostegno: qualcuno, d’altra parte, deve pur parlare di quel che accade nei giornali; e io auguro a Paola che la sua intenzione di accendere una luce sulle segrete cose abbia eco, successo e risonanza.
«graduatorie»
Non starò qui a fare la tipetta sapientina, odiosetta e più realista del re sostenendo che i giornali non sono enti pubblici nei quali si entra attingendo a una graduatoria; né mi sogno di pensare che sette anni di contratti di collaborazione non siano buona motivazione a sperare in un’assunzione.
co.co.co.
È anche vero, però, che un contratto co.co.co., che certamente nessuno considera punto di approdo della propria vita professionale, è in ogni caso – ci piaccia o no, e sono sicura che per ottimi motivi non ci piace affatto – una forma di contrattualizzazione regolare.
Si può certamente pensare, perché qualcuno ce lo promette o perché così accade in molte testate, che questo tipo di contratto sia l’ordinario preludio a un contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato.
Ma è altrettanto vero che al di fuori di accordi sindacali interni fra cdr e azienda non c’è un modo per negoziare, in fatto di assunzioni, la precedenza dei giornalisti già impiegati nella testata rispetto ad altri, professionisti o no, provenienti da altri background o dalle scuole di giornalismo.
siamo nelle mani degli editori
Voglio forse con questo dire che Paola ha torto?
No, neanche per idea.
Voglio solo dire che siamo nelle mani negli editori, e tutto quel che riusciamo a fare è prendercela fra noi (lei no, però: perché fa anche uno sciopero della fame, rischiando del suo; ciò di cui parlo prescinde da lei, anche se dalla sua vicenda nasce la scintilla che mi ci fa riflettere).
vantaggi
Gli editori determinano le nostre vite, giocano con la nostra possibilità di progettare il nostro futuro, dichiarano stati di crisi che – quand’anche effettivi – danno vantaggio a loro e non a noi (se non a quelli di noi che negoziano per sé da una posizione di vantaggio per molti motivi acquisita).
gli editori? sono i giornalisti
E noi, giustamente furiosi, mentre tutto questo accade, chiamiamo «pivelli» i colleghi che vengono assunti al posto nostro, pensando di essere noi gli «ufficiali» deputati alla certificazione della loro professionalità.
Iin una parola, pensiamo di essere noi gli editori.
Tant’è vero che – oh, quante volte l’ho sentito; e non solo davanti alle macchinette del caffè, ma in discorsi che si pretendevano seri e sindacali, perfino – assai spesso lamentiamo che il tal collega non fa una mazza da mane a sera addebitandogliene colpa come se il problema fosse la sua neghittosità, e non l’azienda che quell’indolenza gli lascia liberamente esercitare.
solidarietà
Mi è molto chiaro che Paola sta battagliando contro il Corriere e non contro il «pivello» che secondo lei le ha soffiato il posto, e le sono dannatamente solidale.
aziendalismo di rito berlusconiano
Ma troppe, troppe, troppe volte ho sentito colleghi che, interpretando in modo per me scorretto il senso del loro ruolo, sono – chissà se è poi per questo – diventati a tal punto convinti che l’azienda sia una grande famiglia di rito berlusconiano assai più che paternalista (e che sia a tal punto l’unico universo possibile di riferimento), da ritenere che a stabilire meriti e demeriti delle professionalità altrui debbano essere loro: i «pari».
la mission del cronista 2.0
Sento colleghi che dicono «ehi, dovremmo pensare a qualcosa per avere più visite al nostro sito»; colleghi che pensano di dover modificare la gerarchia dei pezzi in pagina di modo da incontrare meglio i gusti del loro supposto «pubblico» di lettori, e non perché una notizia è, secondo il loro giudizio, più importante di un’altra.
Colleghi che pensano che non esistano gli uffici marketing, gli uffici pubblicità, gli uffici diffusione.
Convinti che non esistano i direttori. Che non esistano gli editori.
O almeno persuasi che, quand’anche tutto questo esiste, sia secondario e irrilevante rispetto alla centralità della loro nuova mission di cronista «due-punto-zero».
giornalisti addio
Eppure, facendo così, l’unica figura professionale di cui certificano l’inesistenza è quella del giornalista, che dovrebbe solo (per dire, «solo»; perché a me non par poco) trovar notizie, capirle, sminuzzarle, verificarle, organizzarle, gerarchizzarle, connetterle, collocarle nel loro luogo, illustrarle con immagini adeguate, titolarle con la massima fedeltà possibile.
uni e trini
I giornali mi sembrano pieni di giornalisti che, «graduati» oppure no, si percepiscono addetti al marketing, alla pubblicità, alla diffusione e si sentono direttori e perfino editori.
Tutto, veramente tutto, pur di non essere più giornalisti.
la guerra fra di noi
No so se a darci alla testa è stato – la taglio proprio con l’accetta – il web o il clima culturale.
Però mi piacerebbe che pretendessimo di poter fare ciò per cui siamo pagati (e moltissimi di noi, pagati poco, male e con incerta periodicità): i giornalisti.
Ma non ce lo lasciano fare.
E allora ci mettiamo a fare altro.
Cioè, innanzitutto, la guerra fra di noi.
Credo che il punto di partenza sia sbagliato: qui si confonde il concetto di freelance o di collaboratore con quello di precario. Sono due status molto diversi. Nessuno inoltre e’ entrato nel merito della Cisa: evidentemente (e sto solo facendo un’ipotesi) al Corriere si ritiene che la Caruso possa essere una valida collaboratrice ma non un’altrettanto valida dipendente.
Il fatto dei 7 anni non c’entra una cippa, credo che siano logiche completamente diverse a muovere meccanismi del genere (logiche che possono anche comprendere i paraculi, certo).
Un giornalista statunitense, ma anche inglese o francese, non si sognerebbe mai di fare lo sciopero della fame x una cosa del genere, sarebbe la prova lampante della sua totale incapacità di mettersi sul mercato. Ma qui da noi il posto fisso e’ dovuto, e’ un diritto costituzionale e quindi “te lo devono dare” il lavoro, non sei tu che te lo devi prendere.
Scusate ma a me questa vicenda, e il relativo schierarsi a spada tratta di gente che non ha la minima idea di quello di cui si sta parlando fa molta miseria umana.
Credo che la tua riflessione sul ruolo vero dei giornalisti sia il punto focale del discorso, avendo avuto a che fare per anni con redazioni di ogni tipo (in una tra l’altro lavoravo proprio con Paola). Tutti vogliono fare quello che non sono: i grafici, i direttori, i critici… nessuno che accetti serenamente il suo ruolo e che di conseguenza svolga al meglio la sua mansione.
Che poi un giornalista sia nella mani di un editore e’ un dato di fatto: tutti i dipendenti sono nelle mani dei loro datori di lavoro. Fare il freelance o il libero professionista e’ molto più duro e pericoloso, pero’ ha il vantaggio notevole che il tuo datore di lavoro sei tu.
Sono d’accordo a metà, Giacomo.
La faccenda del mercato non mi ha mai convinto; né mi pare ragionevole dire che «da noi il posto fisso è dovuto»: un pezzo della questione sta nel fatto che la via ordinariamente accettata per l’accesso a tempo indeterminato in un giornale transita attraverso forme di contrattualizzazione per così dire intermedie (e sto parlando dei casi più fortunati, non degli «abusivi», tra l’altro), giusto o no che sia.
Il sistema funziona così, qui.
E questo rende chiaro che i contratti di collaborazione, per molti giornali, sono un escamotage per mascherare rapporti di lavoro a pieno titolo subordinato.
Quando dicevo che dipendiamo dall’editore non intendevo stigmatizzare più che tanto la cosa (un pochino pochino sì, però, visto che a volte mi viene da pensare che il giornale non è necessariamente una merce qualunque): volevo dire che invece di metterci tutti da una parte, ecco che ci dividiamo fra scafati e pivelli eccetera…
Ma infatti il punto è che Paola non protesta perché la legge è sbagliata, non protesta perché la condizione del precario è insostenibile, protesta perché le hanno rubato il posto che secondo lei le spettava per diritto di anzianità.
Io, che come ti dicevo ho anche avuto modo di conoscerla anche se in maniera molto superficiale, contesto proprio questa logica “cronologica” delle assunzioni, logica che ha rovinato l’università italiana per esempio. Se svogli un lavoro da 10 o anche 20 anni non significa necessariamente che tu sia più bravo di chi lo fa da un anno, in tutti i lavori e le professioni c’è chi deve decidere chi assumere e chi no ed è giusto rispettare le sue scelte (anche se poi ci sono i paraculati, i raccomandati, ecc.).
Mi viene in mente un racconto di Mozzi della sua prima raccolta (mi pare), doveva intitolarsi “L’apprendista”, o una cosa del genere.
Poi non sopporto i pecoroni che fanno della Caruso una martire del precariato a priori senza aver minimamente approfondito la questione (e non è il tuo caso), tutti a “esprimere solidarietà” ecc ecc quando la questione è un’altra, appunto.
Il problema specifico sono i sette anni di precariato che non debbono poterci essere in quanto unicamente motivati dalla volontà di eludere la sostanza del diritto del lavoro, ossia che i lavoratori subordinati tali devono essere per ordinamento. Creato il problema non esiste soluzione giusta, né in un giornale, né in un ente pubblico di qualsiasi tipo e natura.
La causa del problema è vasta e complessa e riguarda pure l’altrui capacità di governare il mondo e la nostra incapacità di opporvisi. Dei singoli e dell’insieme tanto per i capaci quanto per gli incapaci. Dal precariato però traggono vantaggio economico i padroni (d’accordo pare di essere nel tardo settecento a scrivere così ma, come dire, funziona).
Così, di passaggio, la questione investe anche l’organizzazione del lavoro (e la qualità del prodotto quindi). Conseguenza di questo meccanismo è che appunto nei vostri giornali vi son coloro che svolgono ruoli diversi dai propri e che coloro che dovrebbero svolgerli non lo fanno. Non nei vostri giornali, ovunque. Ma il problema del 2.0 è giustappunto la sua vacuità, insomma l’essere una bolla finanziaria che nel concentrare ricchezza corrode il resto con un efficienza complessiva negativa. Consuma profesisonalità, ossia sapere e formazione. Leggendo delle vostre macchinette del caffé si aggiunge solo che avviene anche nelle redazioni dei giornali. Ve ne era il sospetto…