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un incontro
Entro in un negozio insieme a mio figlio.
Marco va a posteggiare, ci raggiunge poco dopo.
La signora che gestisce il negozio è una bella donna di meno di sessant’anni, con una bella coda di capelli rossi.
Tinti, ma su di lei stanno bene perché funzionano come le lentiggini.
«Giovanotto», chiede a mio figlio. «Tu come ti chiami?».
«Giovanni», risponde lui.
«Bene. Un bel nome normale. I miei si chiamano Matteo e Francesco. Trentacinque anni fa erano due nomi che andavano di moda. Pensa che nella classe di mio figlio c’erano sette Matteo», dice lei sollevando verticale la mano sinistra con le dita ben aperte e la destra con pollice e indice estesi.
«Da me alle elementari», dice Giovanni, «c’erano quattro Giovanni!».
Qualche minuto trascorre in silenzio.
«Ho passato una tremenda depressione», mi dice.
Mi fermo. La guardo.
«… mica di quelle che la gente vien qui e ti dice “eh, son depresso perché ho preso la multa!”. De-pres-sio-ne vera, da psichiatra. E un giorno lo psichiatra mi consigliò di prendere con me un animale. Aveva ragione: senza di loro non ne sarei uscita. I miei bambini io li adoro. Faccio tutto, per loro. Io e mio marito magari mangiam panini, ma per loro c’è la verdurina… Poi ogni tanto torna anche la depressione, ma per fortuna ci sono loro».
«E i suoi figli?», le chiedo sorridendo. «Non le dicono mai “ma mamma, tu vuoi più bene a loro che a noi?”».
«Sì, ma, lasciamo perdere, va’».
Gli occhi diventano liquidi.
«Ventun anni fa mio figlio è stato in coma sei mesi».
«…».
«Era l’una e mezzo e non era ancora tornato da scuola. Mio marito ha telefonato in giro, io sono uscita».
«…».
«E ho visto una pozza di sangue, una scarpa e lo zainetto. Non riesco a pensarci».
Mi avvicino.
È più forte di me: l’abbraccio e le dò un bacio.
«E come sta, adesso, suo figlio?».
«Insomma. Come vuole che stia, dopo sei mesi di coma?», dice lei.
«È autonomo?».
«Sì, s’è sposato, ha trovato una donna che lo vuole com’è, anche se non cammina bene e ha tutta la faccia…». Si preme una mano su una guancia e la trascina in giù con forza, buttando in fuori il labbro inferiore.
Quando usciamo, Marco mi dice «tu fai parlare anche le pietre».
Non so.
Nella vita contano solo gli incontri.
L’hai abbracciata, brava, io non ce l’avrei fatta.
In realtà ho fatto come la Palombelli.
L’ho abbracciata e le ho chiesto scusa per essermi permessa di farlo.
Non so. Quando qualcuno si apre davanti a me viene da dare un segno di riconoscimento, di accoglienza. Un «sì, sto capendo».
Non è una cosa molto normale.
Gli incontri sono la vita, il resto è amministrazione.
E’ normale dare un segno di accoglienza, fosse anche solo un sorriso, purtroppo non è molto frequente che capiti.
è normalissimo quando chi ascolta è capace di farlo. Quello che non è più normale è non ascoltare più. Un abbraccio
😉