joseph o’ connor si commuove

È notte anche qui, dove siamo un’ora indietro. Cerco di fare presto.

Stasera (la sera del 27, intendo: è mezzanotte passata, e il blog segna il 28 come data di questo post), leggendo il finale del suo ultimo libro nel reading che ha tenuto all’Irish Writers’ Centre, Joseph O’Connor s’è messo a piangere, e ho pianto anch’io.
È una storia d’amore, piena – m’è sembrato – di delicatezza.
Se la delicatezza tolga forza al libro, Ghost Light, ancora non lo so, perché non l’ho letto.

Di sicuro non ha tolto forza a lui, al fratello di Sinead O’Connor, che – bell’uomo: le foto non gli rendono giustizia – fino a un attimo prima ha fatto ridere tutti a squarciagola leggendo da un altro suo libro un pezzo delizioso sulle presentazioni dei libri in libreria vuote dove, essendo tu irlandese, ti dicono «ah, sai? Roddy Doyle è bravissimo e fa sempre il pienone».

Mi sono fatta autografare il libro che avevo ancora gli occhi lucidi.
«Ma ti sei commosso davvero?», gli ho detto. «Non era professionismo?».
«No», ha detto lui. «Mi sono proprio commosso».


Prima di lui era toccato a un delizioso Anthony Glavin. Nato in America ma trasferito in Irlanda nel 1974, Glavin ha letto un pezzo dal suo primo romanzo Nighthawk Alley, uscito nel 1997, e il brano iniziale del suo nuovo romanzo, che poi di Nighthawk Alley sarebbe il prequel.

Chairman della sessione era Catherine Dunne, che – devo proprio dire la verità – in queste cose è un mostro di bravura e di naturale autorevolezza.
Avevamo avuto una lunga conversazione davanti a una tazza di tè, poco prima, per un progetto che comincia a prendere forma e mi sembra così bello da togliermi il fiato.
In un’ora avevamo discusso di temi, date, scadenze, priorità; sviscerato i punti interrogativi; fissato i tempi di massima; scritto ciascuna il suo elenco di punti numerati.

In Irlanda, la cui capitale è stata nominata dall’Unesco città della letteratura, c’è un’agenzia governativa per il finanziamento e lo sviluppo delle arti. Si chiama The Arts Council of Ireland (vedi qui).
Stasera, prima del reading, ha parlato Pat Moylan, «chair» dell’Arts Council.
«Questa serie di readings che saranno portati ai quattro angoli del Paese», ha detto, «si chiama Peregrine Readings» (link qui). «Ebbene, non vi nascondo che ho dovuto cercare la parola peregrine sul dizionario. Non la conoscevo».
M’è piaciuto, perché ha tolto subito a quella stanza ogni possibile aria da garetta a chi ce l’ha più lungo.

«L’arte è il passaporto per la nostra sopravvivenza», ha detto. «I turisti non vengono certo da noi per il nostro sole. Vengono perché pensano di conoscere il Paese poiché conoscono i nostri autori e la nostra musica. Il fatto è che l’arte è ciò che noi siamo».

Questo luogo mi muove fili interiori, ha il potere di costringermi da sola davanti a me stessa, di mettere a fuoco quanto il dentro e il fuori possano corrispondersi e aderire l’uno all’altro.
Non ho una storia, qui.
Chi parla con me è semplicemente curioso di me come io son curiosa di coloro con cui parlo.
Non c’è pregresso da sminuzzare.
Qui mi sento bene.

Quando ci ho messo piede la prima volta non potevo immaginare niente di tutto quello che in questo luogo ho visto e trovato.
Non ho fatto che tornarci, e senza sapere perché; solo per ostinazione, per i corsi di lingua, per vedere uno spettacolo, per partecipare a un corso di scrittura.
Nella vita ci sono momenti in cui capisci perché hai fatto certe cose dei cui moventi, prima, non avevi idea.

Mi capita spesso.
Vado avanti, e avanti, e avanti; chi mi vede da fuori dice che sembro un panzer ostinatamente in movimento.
Chiunque mi chieda ma cosa stai facendo? riceve una risposta piuttosto evasiva, un non lo so.

E poi, all’improvviso, lo so.
So perché mi sono ostinata.
So perché ho fatto, ho speso energie, ho sbattuto la testa sul muro.

È una cosa rassicurante. Mi dà fiducia nella mia intuizione.
D’altra parte io continuo a ripetermi un importante dato di fatto: che io sono molto più intelligente di me.