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uomini e donne (leggendo lynch sulle scale)
Tornando dal lavoro, mi sono accorta davanti al portone che avevo dimenticato le chiavi di casa.
Ho chiamato Marco, che era fuori con Giovanni a prendere un aperitivo dai nonni.
Lui si è sincerato che avessi con me il libro che sto leggendo – il finora bellissimo, asciutto, autentico, poetico e denso «Falling out of heaven» di John Lynch (uno dei due autori che in giugno ero andata a sentire a Dublino), e mi ha consigliato di aspettarli facendo quel che a volte faccio già per conto mio: sedermi a leggere sulla scalinata del municipio.
Il marmo era rovente, e ho dovuto fare attenzione a non far «cucinare» il prosciutto crudo, lo yogurt e il formaggio che avevo comperato: così li ho impilati, precari, sul sacchetto del pane.
Ho letto cose molto belle, nelle prime pagine della storia di quest’uomo che viene ricoverato in una clinica per disintossicarsi dall’alcool, e da quel letto ripensa a sé e alle sue relazioni.
Ambientare un romanzo in quella situazione logistica ed emotiva è forse uno dei modi più facili per scrivere cose lente, flaccide e noiose.
Ecco. Sbagliato.
Questo libro è rapido, incisivo, emotivamente carico senza essere pesante.
Parla di famiglia.
Parla di cosa significhi, tra mille altre cose, essere figlio (necessariamente ipervigile) di un uomo irascibile e verosimilmente alcolizzato, e di una donna ossessionata dall’idea dell’amore di dio: «Era stata molto bella, mia madre», scrive a pagina 10, «ma la fede in dio l’aveva resa repellente».
Mentre leggevo queste cose, molti gruppi di borghesi tedeschi si avviavano verso l’Arena lasciando una specie di scia della loro peculiare idea di eleganza: abito lungo purchessia e tacchi purchessia, anche se la scarpa è di vernice, anche se la scarpa è chiusa e invernale; una coppia di fidanzati napoletani si fotografava davanti all’Arena (Lui: «Nu tteng cchiù pasciénz, mò bbasta»); donne tornavano a casa con i pacchetti dello shopping del sabato.
A un certo punto, una coppia di giovani fidanzati s’è seduta sugli scalini.
Lui mangiava un kebab.
Lei: «Guarda che se ti danno la multa io non te la pago» (la multa perché mangiava sui gradini del municipio).
Lui: «Certo che me la paghi».
Non ho capito perché il problema si fosse posto in questi termini, ma non fa niente.
La ragazza, giovanissima, era bellissima.
Begli occhi chiari, sopracciglia folte, una matassa di capelli castani lunghi fino alle spalle.
Belle braccia, belle gambe, caviglie sottili, collo lungo.
Short di jeans, canottiera grigia e Birkenstock infradito: il tutto portato senza la minima intenzione di sedurre.
«Dài, andiamo via», dice lei.
Lui: «…» (non sono riuscita a sentire).
Lei: «Ma uffa! Io devo fare la pipì! Andiamo via!».
Lui s’è alzato e si è avvicinato al cestino dei rifiuti per buttare via quello che avanzava del kebab.
Poi se ne sono andati insieme.
A quell’età, fra i 16 e i 18 anni, penso che le ragazze riescano ad essere completamente insopportabili. Per insicurezza, riescono a esercitare con vera maestria l’arte del ricatto, e i ragazzini – bisognosi di conferme – si lasciano volentieri ricattare, alimentando quel rivoletto di rancore che così spesso nella vita delle coppie di lungo (o lento, forse) corso percorre per anni, invisibile, la faglia fra due anime.
E pare strano, ma quel rancore lì a me sembra che serva di più agli uomini che alle donne, perché giustifica il loro disinteresse per le emozioni e i sentimenti della donna che sta con loro.
Alcune «guariscono».
Alcuni «guariscono».
Molti no, però.
E continuano a massacrarsi l’un l’altro con imposizioni e divieti, regolamenti e codicilli.
Mi è sempre parsa una cosa da pazzi.
Bè, facci sapere come continua sto Lynch (bel racconto, tranne la mimesi del napoletano, solarmente imprecisa!) !
Grazie, Luca. Farò sapere. Per ora continua ad essere molto bello, da divorare. Intenso e pieno.
Quanto alla mimesi del napoletano: può essere che la traslitterazione sia imprecisa; ma mia madre è campana – non di Napoli, questo è vero – e a casa ha sempre parlato e tuttora parla il suo dialetto!!!
sei stata un cupido armato di marmo, sassoni spigolosi che hai tirato con precisione. Il rancore è un rivoletto e viene usato dagli uomini: oppure il rancore è una pianta grassa, un po’ d’acqua e sole, e cresce quasi da sola senza tanto impegno e poi valla a prendere in mano, quando è talmente spinosa che diventa ingestibile ed inafferrabile, quando esplode perchè pianta grassa esplosiva, flaccida e gonfia, spine dappertutto e guarda come sanguini piano e soprattutto: quanto impegni ci devi mettere a togliere spinolino per spinolino, mentre lei è di là e cresce di nuovo, tò c’è anche un fiore!, ma a quel punto è proprio il caso di uscire a comprare dei fiori recisi e non mi si dica che avevo iniziato io!
v,uomo
😉
In realtà il rancore serve anche alle donne, forse per evitare di misurarsi con la propria femminilità.
Siamo fatti per volare ma ci rinchiudiamo in prigioni che ci costruiamo da soli.
Colui che ci ama, che ci ama davvero, apre le nostre gabbie e ci rende la libertà; invece troppo spesso non facciamo altro che cercare di portare la persona amata con noi nella nostra stessa prigione.
Se hai ragione…