giornali, dignità e democrazia della paletta

Su Facebook e su Repubblica.it trovo notizia di quest’appello:

Cari editori, cari rappresentanti della Federazione Nazionale della Stampa,

Vi scrivo in merito allo sciopero del 9 luglio 2010 come strumento di contestazione contro la Legge bavaglio.
In questi giorni riflettevamo su questa forma di protesta.
Ma se si vuole dare un segnale forte per contrastare una legge che vuole i cittadini non informati e i giornalisti imbavagliati forse non è questa la risposta giusta. Anzi, ci vorrebbe ancora più informazione.

Allora a nome della Valigia Blu, la dignità dei giornalisti e il rispetto dei cittadini, il gruppo apartitico nato su Facebook per una informazione corretta e per il bene comune (con oltre 207 mila iscritti), vi chiediamo per venerdì 9 luglio anziché scioperare, di pensare a una forma di protesta più forte e originale: regalate ai vostri lettori i vostri giornali! O fateli pagare la metà!

Ve lo immaginate? In edicola quel giorno chi normalmente legge un giornale potrebbe decidere di leggerne 4, 5, invece di avere una giornata senza informazione avremmo una giornata di superinformazione!

Una maggiore diffusione dei giornali – siamo convinti – sarà gradita anche dagli inserzionisti.

E agli editori che avranno paura di coprire i costi di questa operazione chiediamo più coraggio, in fondo si tratta di investire per un solo giorno puntando al ritorno non in termini economici ma di libertà e di democrazia
Sarebbero tutti felici: editori, inserzionisti, lettori, giornalisti. Gli unici a non essere felici sarebbero quelli che in modo irresponsabile stanno portando avanti questa sciagurata legge, coloro che in un colpo solo vogliono legare le mani ai magistrati e mettere il bavaglio ai giornalisti, ledendo i diritti fondamentali dei cittadini alla sicurezza e all’informazione.

Pensateci, stupiteci!

In attesa di una risposta, porgo cordiali saluti
Arianna Ciccone
Valigia Blu

Su quest’appello io ho qualcosa da dire.

1. Ma sono i giornalisti a decidere:
a) cosa va in pagina? (Alludo alla richiesta di una giornata di «super-informazione»);
b) il prezzo di acquisto dei giornali?
c) la possibilità di diffondere gratuitamente i giornali?

2. finché nessuno si occupa di quel che succede nei giornali, l’effetto di appelli come questo risulta quasi surreale: tutti i giorni veniamo censurati e mazzolati, spinti a fare gli interessi politici dei nostri editori (quando non ci autocensuriamo, invece, per conto nostro), e la grande idea è «fate un giornale in più, non un giornale in meno», e «ci vorrebbe più informazione».
Beh.
Grazie del suggerimento.
Capisco che nessuno possa fare lotte al posto mio. Il fatto è che tantissimi, dentro, le fanno; eppure non servono a niente.
D’altra parte, pensare che gli editori adesso, formalmente, si possano dichiarare contro la legge sulla pubblicazione delle intercettazioni non mi dà il minimo sollievo.
Poniamo che lo facciano. C’è forse qualcuno che pensa che a quel punto
smettano di censurare?
Secondo me no.

3. Il proclama e la petizione, in sé stessi, mi devastano: danno l’illusione che si sia finalmente trovato qualcuno con cui combattere pezzetti di battaglie e in realtà sono una delle forme più inutili di presenza politica nel mondo. Sono dichiarazioni di sé. Ci si dichiara così o cosà e non si fa niente, perché nessuna petizione individua qualcosa che abbia anche minimamente a che vedere con un’ipotesi anche vaga di percorso anche tangenzialmente politico.
Non prevede itinerari, passaggi, gradi intermedi, risultati minimi, medi, massimi, proposte di trattative.
Quel che una volta si chiamava «piattaforma» e io tenderei, invece, a chiamare idee su cui confrontarsi con l’obiettivo di mediare fra i legittimi interessi rappresentati dalle idee di altri con cui si hanno visioni quanto più possibile compatibili fra loro.
La politica è un gradino dopo l’altro, non prese di posizione nelle quali si elencano cose belle – o anche, in qualche caso, frasi senza senso, a rigore – e poi cia’ ccia’, è stato bello, ci vediamo e parliamo di quanto siamo fichi a vedere il mondo riformabile, noi sì che crediamo nel cambiamento perché noi siamo ggiovani, non come questi tromboni, e adesso forza che organizziamo una convention.

4. Dice: «Ma ti piace forse fare la Cassandra?». No. Ma veramente non riesco a capire come si possa credere che una petizione serva a qualcosa di diverso da obiettivi – volontari o involontari, il problema non sta qua; io tendo a credere nella buona fede di chi vuole cambiare le cose – del genere di quelli qui elencati:
a) accreditarsi/essere accreditato come «presenza» (giornalistica, sociale, intellettuale…);
b) dare alla Repubblica (il quotidiano) la possibilità di sentirsi culturalmente a capo di un’area politica.

5. Notazione assolutamente marginale e incidentale.

Sarà che io sono decisamente fuori moda (e non lo dico per civetteria), ma qualcuno potrebbe spiegarmi per quale benedetto motivo io, giornalista, nel momento in cui mi pongo il problema della libertà di stampa, dovrei essere contenta del fatto che sarebbero contenti – oltre che i lettori e i giornalisti – gli editori e gli inserzionisti?
Non ho niente contro di loro, per carità.  Ma perché, posto che comunque io non ho potere di influenzare le loro scelte, dovrei essere contenta se loro sono contenti? È una posizione che mira a valorizzare un generale senso di armonia? Non so: secondo me giornalisti, editori e inserzionisti hanno ruoli diversi e spesso obiettivi diversi. Di sicuro, per quel che mi riguarda, diverse deontologie. Forse non conta; ma un po’ a me sembra che conti, invece.

6. Notazione ancor più minuscola: leggo di uno «stupiteci».
Sì, capisco che è una notazione di colore.
Però mi fa impressione anche l’elevazione dello stupore a categoria politica.
Sono del tutto sicura che la creatività lo è (categoria politica, intendo).
È la tacita presupposizione dell’esistenza di un «noi» e di un «voi» come categorie della – mio dio, se mi urta usare la formuletta – «società dello spettacolo» che mi fa riflettere.
È come un lieto «avanti, showmen dell’informazione! Su, inventate qualcosa con cui stupire il vostro pubblico».
E «pubblico» – adesso mi viene in mente – è la parola che lo stesso Scalfari, pochi giorni fa, ha usato in un suo editoriale politico come sinonimo di «cittadini», «collettività».
Per dire che a volte le cose, curiosamente, si richiamano le une con le altre…

Ps. Da Daniele Sensi, dalla cui bacheca Fb ho ppreso dell’appello (grazie), mi è stato garbatamente eccepito, a proposito del rilievo che muovo per primo – che non sono i giornalisti a decidere – che, infatti, l’appello è indirizzato anche agli editori.
Per quanto «modernamente» io mi sforzi di considerare l’identità e i compiti delle cosiddette parti sociali, ciò che mi resta ancora chiaro in mente è che a dichiarare lo sciopero è stata la Federazione nazionale della stampa italiana, ovvero il sindacato unitario dei giornalisti italiani.
Se qualcuno intende chiedere ai giornalisti di ritirare il loro sciopero, dunque, per un minimo di sensibilità istituzionale (guarda caso, ciò che ci dispiace così tanto manchi a Berlusconi) dovrebbe rivolgersi a loro, che hanno proclamato lo sciopero attraverso la loro rappresentanza di categoria, e non agli editori.

Se lo «sciopero» (virgolette assolutamente obbligatorie, qui) l’avessero proclamato gli editori, si sarebbe chiamato «serrata». Non sciopero.

In più, tecnicamente, indirizzare agli editori un appello mirato a far ritirare uno sciopero proclamato dal sindacato dei loro dipendenti equivale, nella mia logica, a un invito a che gli editori muovano pressioni indebite sulle associazioni di stampa.
Equivale, in breve, a caldeggiare un comportamento antisindacale.