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fate largo alla trave
Dice il rettore della Sapienza Luigi Frati, che – come si apprese dal Corriere della sera Style Magazine – ha due figli che insegnano all’università, ha fatto il ricevimento di nozze della figlia in aula magna come se fosse il salotto di casa sua, ed è «spesso consigliato da Penny, la cagnetta di casa»:
Il 30% dei ricercatori della facoltà di Giurisprudenza non ha prodotto nulla nell’ambito della ricerca scientifica e in generale alla Sapienza il 10% dei ricercatori non ha prodotto nulla in 10 anni. Queste persone vanno cacciate dall’Università.
Ho un dubbio.
Ma se i ricercatori devono tenere i corsi, quanto tempo hanno per fare ricerca e «produrre» qualcosa?
E tacerò sul concetto di merito, perché in fondo ha già detto tutto Style Magazine.
Lungi da me il voler difendere Frati, ma se i numeri che cita sono veri (e ahimé non mi stupirebbe affatto), la conclusione a cui arriva sarebbe sensata in qualsiasi paese civile. Tenere un corso non è certo un impegno a tempo pieno: in molti corsi di laurea l’impegno è inferiore a cinquanta ore cosiddette “frontali” cioè davanti agli studenti. Vogliamo dire che per preparare un’ora di lezione ce ne vogliono tre (che, ti assicuro, sono tante, specie se hai già tenuto il corso in anni precedenti)? Sono duecento ore all’anno. Questo giustifica uno stipendio netto di 1700 euro al mese (ricercatore con 4-5 anni di anzianità)? Non mi pare. Ti parla un ricercatore che tiene due/tre corsi all’anno, nel frattempo produce anche ricerca, e che prende lo stesso stipendio di alcuni dei ricercatori che andrebbero cacciati (e molte di queste situazioni mi sono note per conoscenza diretta).
Ti metto in contatto con mio marito.
Ricercatore anch’egli.
Ma non capisco una cosa: secondo te chi tiene tre corsi non deve prendere 1.700 euro al mese?
Lo stipendio del ricercatore confermato italiano credo sia anche più alto (con la tredicesima attorno ai 2000 euro netti al mese). A Trento siamo tenuti a fare 60 ore di didattica frontale, molte meno di un lecturer in Inghilterra (100) dove, considerato il costo della vita, lo stipendio è grossomodo simile. In Inghilterra (o almeno dove mi trovo ora) si richiede ad un ricercatore di produrre 1-2 articoli all’anno pubblicati su riviste di alto livello. Mi pare che sulla carta la situazione dei ricercatori italiani sia dignitosa e mi sentirei di condividere misure nei confronti dei colleghi improduttivi. (osservo che a giurisprudenza, soprattutto nei grossi atenei ma non solo, molti ricercatori esercitano anche la professione, la qual cosa se incide sui livelli di produttività dovrebbe fare riflettere. Vi sono casi in cui lo stipendio da ricercatore serve sostanzialmente a garantire il salario minimo a professionisti). Il problema non sta tanto nelle norme vigenti, quanto nelle prassi applicative. E’ noto che spesso i ricercatori devono fare molte più ore di didattica per ‘coprire’ altri docenti in altro affaccendati. La cosa sconfortante è che molti colleghi ricercatori si adeguano a questo regime considerandola l’inevitabile gavetta per poter poi un giorno, forse, sfruttare i prossimi malcapitati. Se si prova – abbiamo tentato anche recentemente – ad inserire qualche minimo granello nell’ingranaggio ci si ritrova inesorabilmente minoranza. In conclusione, comunque, ciò che è veramente odioso è che il discorso sul merito (…) parta sempre dagli strati più bassi e non da chi ha maggiori responsabilità.
Grazie intanto della risposta. Sulla tua osservazione: in termini assoluti sono forse pochi, ma gli stipendi italiani (in tutti i settori) sono bassi per motivi che non hanno a che fare (o comunque hanno a che fare solo in parte) col sottofinanziamento della ricerca. Rispetto a quanto i ricercatori e professori italiani producono effettivamente (in media!!) non credo che siano sottopagati, anzi.
Ma in termini relativi, chi fa tre corsi dovrebbe prendere piu` di chi ne fa uno solo, e meno di chi fa tre corsi e riesce ANCHE a fare ricerca (che non mi sembra una cosa sovrumana). Se chi fa tre corsi prende uno stipendio basso, e` anche perche’ i soldi che gli spetterebbero servono a mantenere dei ricercatori improduttivi. L’irritazione che forse hai colto nel mio commento era dovuto alla tua frase “Ma se i ricercatori devono tenere i corsi, quanto tempo hanno per fare ricerca e «produrre» qualcosa?” che mi era sembrata una giustificazione dei lavativi.
È la definizione di «produttività» che mi destabilizza.
La questione del merito.
Chi fa pubblicare cosa e dove?
Possiamo dire che il fatto di non pubblicare dipende necessariamente da ciò che mi rifiuto di liquidare in modo padronale come una specie di sindrome del lavativo?
Possiamo tentare di analizzare il meccanismo della produzione del sapere come qualcosa che con estrema difficoltà si riesce a riprodurre su un piano cartesiano?
Possiamo dire che la definizione del merito è ideologica?
Possiamo argomentare che non basta dire – soprattutto in alcune discipline – «le migliori riviste», ma occorre anche specificare le migliori riviste «a giudizio di chi»?
E anche quando il giudizio sulla rivista dovesse promanare dal Sommo Immenso Inarrivabile Consesso dei Censori Scientifici, potrei avere comunque – come essere umano dotato di spirito critico – qualcosa da dire sul fatto che possano essere migliori dal punto di vista di chi nel settore detiene il potere (economico, accademico, negoziale…)?
Posso dire che riflettono un’idea di mondo e di sapere che potrà essere maggioritaria ma non è necessariamente – non per definizione – giusta e incontestabile?
E possiamo anche dire, magari, che il lavoro non è un’azione meccanica nella quale uno fa tot, tot più ics, e allora il padrone – o il datore di lavoro – gli dà tot?
Possiamo dire che le motivazioni sono essenziali?
Possiamo dire che se togli le motivazioni a un lavoratore hai demolito alla base la sua possibilità di trarre soddisfazione dal suo lavoro?
E possiamo dire che quando il lavoro non ti dà soddisfazione ha senso farlo anche al minimo del dispendio di energie?
Perché dobbiamo pensare che le motivazioni sono sempre problemi del lavoratore?
Perché non diciamo che la situazione dei luoghi di lavoro è tale per cui i datori potrebbero creare – visto che mi pare piaccia il moderno – circoli virtuosi invece che i circoli viziosi e le cloache che creano?
Si può dire che, magari, chissà, gli ordinari che parlano di ricercatori «fannulloni» (al di là della volgarità dell’espressione, e dio sa se le parole e la loro volgarità hanno o no un loro fottuto perché) sono coloro che hanno stroncato in radice la speranza di molti dei loro ricercatori?
Come mai nessuno ha rilevato la circostanza che i figli di Frati lavorano entrambi all’università? Può non voler dire niente, ma è o non è una circostanza da rilevare, argomentando su ciò di cui stiamo argomentando?
Come mai pare normale che il rinfresco di nozze della figlia sia stato fatto all’università, in aula magna, come se l’università fosse «cosa sua», demanio personale, territorio della sua satrapia?
Frati è il rettore che ha sostenuto che al papa fosse stato impedito di parlare (era la lectio magistralis di inaugurazione dell’anno accademico) alla sua università da quei diciassette (mi pare che fossero diciassette) docenti che si richiamavano alla laicità del sapere, quando invece il Vaticano e il ministero degli Interni avevano già escluso qualunque problema di ordine pubblico.
Frati è quello che ha vietato di parlare all’ex br Morucci, sostenendo che un pentito aveva bisogno di un contraddittore (cioè, a rigore, di uno che alle Br e alla lotta armata ancora crede!).
Quando leggo le vostre parole, così parallele alla vulgata meritocratica, così disponibili a vedere solo quel che l’ideologia della produttività consente di vedere, così facili a pensare che la colpa sia sempre primariamente attribuibile orizzontalmente – da pari a pari – e che non ci siano cause altrove, o che esse non siano abbastanza rilevanti da parlarne…
Quando leggo questa specie di voluptas dolendi che non è indirizzata a se stessi (i «fannulloni» non siamo mai noi), ma ai «compagni di categoria», loro sì fannulloni e ruba-stipendi; quando mi rendo conto che un ragionamento sul senso del lavoro nell’economia generale della vita di un essere umano, con le sue passioni, il suo cuore, il suo corpo, la sua storia, le sue aspettative, ha perso completamente ogni possibile significato, misuro l’entità drammaticamente disperante della sconfitta della politica, della vittoria del «buonsenso», che della politica è la morte perché annulla la sola idea del conflitto dietro le insegne dell’inevitabilità unanimistica dell’accordo su punti ovvi; misuro l’entità della vittoria – sì, lo dico – della «guerra tra i poveri».
Il nostro piano di ragionamento è il loro.
E a questo punto non ci può essere altro da dire.
Solo raccolte di firme. Petizioni. Appelli.
Questo piace un casino a chiunque. Destra, sinistra, centro. Meritocratici, produttivisti, anti-fancazzisti.
Ma sì. Firmiamo.
E poi ci arriva la pallottola in testa, come in 1984.
Che amarezza.
Scusa Federica, ma stando al tuo ragionamento, non si potrebbero nemmeno fare concorsi, appalti, ecc. ecc. Perchè il tuo ragionamento elimina in radice ogni possibilità di valutare il lavoro ed attribuire responsabilità, un principio che non impone nessuna ideologia se non quella stabilita, tra l’altro, in Costituzione. Le battaglie non facciamole sul se della valutazione o del merito, ma semmai su come questa valutazione viene o dovrebbe essere fatta. E allora ben vengano riflessioni critiche sulle riviste di qualità, sulla produttività, sul cosa significa fare ricerca e università oggi. Ma una levata di scudi pregiudiziale è il peggior tipo di difesa corporativa, dove tutti sono uguali, sfruttati, sfruttatori, cazzoni e gente che lavora sodo. Infine, apprezzo molto, moltissimo la tua critica alla democrazia della paletta. Francamente però mi sembra non c’entri molto con il dibattito che stiamo facendo qui. E, permetterai, trovo abbastanza offensivo essere ascritto alla categoria della sconfitta della politica o della guerra tra poveri. A mio parere politica dovrebbe essere l’impegno a risolvere i problemi, non ad evitarli.
Parlo di lavoro, Marco.
Del senso del lavoro.
Il lavoro è di più che un appalto.
Il lavoro è parte di una vita, di una storia. È carne e sangue.
Il lavoro non è il risultato dell’impegno del lavoratore e basta: è il risultato delle motivazioni (che possono essere tolte da altri), delle dinamiche di potere, degli strumenti che vengono messi a disposizione del lavoratore, del senso che al suo lavoro gli è consentito di annettere.
In una parola: il lavoro non è un bicchiere in cui si possa misurare quanta acqua metti; è una pietanza in cui c’è sale, e pepe, e condimento, e ingredienti base, e spezie, e diversi modi di cucinarla, e la possibilità della fiamma vivace e quella del fuoco lento.
Non nego l’esistenza del merito: nego che sia una grandezza inequivoca. Sostengo che, per esempio, in un giornale merita di più un servo che un homo erectus. E allora, come la mettiamo, qui?
Dico che il merito è ideologico e risente del potere.
Non nego la possibilità di valutare. Dico che valutare è un’operazione ideologica e di potere.
Mi pare diverso.
Mi pare che si dovrebbe esserne consapevoli.
I cazzoni ci sono sempre stati, Marco.
Una dose di cazzoni è fisiologica, credo.
Cosa facciamo?
Li uccidiamo?
Han da mantenersi anche loro: se non diamo loro stipendi dovremo dar loro dei sussidi! O le pallottole, che costavano trecento lire e non so quanto costino in euro.
Parlare di lavoro e di centralità del lavoro – o di assoluta dimenticanza del lavoro come tema in sé – ha invece molto a che vedere con la democrazia della paletta, perché la democrazia della paletta non si occupa delle idee, ma delle cose che abbiano un alone indistinto di condivisibilità.
E cosa c’è di più condivisibile dell’affermazione apodittica che il merito va tutelato?
Cosa c’è di più ascrivibile al «buonsenso» che la proclamazione dell’esistenza di responsabilità orizzontali invece che contestuali?
E infine: perché nessuno più ricorda il significato della parola «alienazione»?
Se ti ho fatto sentire offeso, mi scuso. Mi dispiace. Però a me sembra che ci sia una bella differenza fra il negare l’esistenza del merito (cosa che tu attribuisci a me, offendendo me) e il sostenere che il merito è una grandezza che risente – lo ripeto – di ideologia e di potere.
Infatti esistono pietanze sublimi, pietanze disgustose e tutte le vie di mezzo. A mio giudizio la battaglia per l’università pubblica (non fatta con le palette, ma fatta con l’impegno quotidiano del preparare bene una lezione, un articolo e non abbassare la testa nei confronti del barone di turno) consiste nel riuscire a offrire un piatto di pasta decente a tutti.
E’ vero che i cazzoni ci sono sempre stati, ma converrai con me che è triste vedere che occupano il posto di gente più motivata che alla fine va a fare un altro mestiere. Ecco, a me piacerebbe che un altro mestiere se lo dovessero cercare loro.
Infine, condivido che la meritocrazia si presti a tremendi esercizi di ideologia. E che come tale sia una parola pericolosa. A mio giudizio però è irrinunciabile (non tanto la parola, quanto il principio che c’è sotto) perchè riguarda il servizio che si fornisce ai cittadini in cambio delle tasse che essi pagano o dovrebbero pagare. E quindi provo a riempirla di significati e di pratiche più precise e vicine ai miei valori. Tu la rigetti in toto, però allora mi devi spiegare perchè come contribuente pago le tasse per finanziare un servizio scadente. Temo che a questo punto dobbiamo essere d’accordo di essere in disaccordo (lo so, la traduzione è pessima). Ciao.
There’s more to life than simply io-dare-te-tasse-tu-dare-me-bello-servizio…
Non rigetto la parola.
Rigetto l’idea che la si possa usare facendo finta che possa essere una cosa diversa da quel che è: il risultato di ideologia e relazione di potere.
Su molte delle cose nella tua replica sono d’accordo, e non sono così ingenuo da credere che il merito sia un criterio oggettivo (l’operazione che Frati porta avanti con quella dichiarazione è trasparente da questo punto di vista). E però: i criteri di merito sono (direi intrinsecamente) il risultato di una operazione di potere: questo per te è un peccato originale tale da volerci rinunciare, o tutt’al più, da renderli un male necessario? Mi sembra che il problema sia che rapporti di potere patologici (in quanto disgiunti dalla responsabilità, come è il caso dell’Università italiana) conducono a criteri patologici.
E mi sembra anche che l’osservazione di Marco non sia eludibile: l’ingiustizia (anche feroce a volte) del sistema universitario può essere un alibi per trattare tutti (male, per altro) allo stesso modo? La percentuale di cazzoni cui tu vorresti passare un sussidio non ha niente di “fisiologico”: è il naturale risultato della mancata differenziazione (anche retributiva) tra persona e persona.
Il problema, forse, sta qui: che tu – ma può essere che io forzi – pensi che un giorno tu potrai far parte di quel potere che decide il merito, o influenzarne le decisioni; e io no.
Scusami, te lo dico assolutissimamente senza polemica, ma questa tua ultima osservazione mi pare che non risponda a quanto dicevo, ed in particolare alla questione della mancata differenziazione per merito (leggasi sussidi per cazzoni). Visto che ribatti con una osservazione personale, me ne permetto una anch’io: forse la differenza è che tu vedi (può darsi che sia io a forzare, adesso) il potere come un male assoluto, mentre a me pare un naturale meccanismo con cui si coordinano dei sistemi complessi. Non mi scandalizza né trovo osceno che ci sia qualcuno che prende decisioni che influenzano il mio lavoro e la mia vita (e non tengo particolarmente, ti tranquillizzo 🙂 ad esercitare questo potere su altri), purché il gioco sia “fair.” Ma da noi è proprio la fairness che manca. Grazie comunque della chiacchierata.
Secondo me nemmeno il tuo intervento era una vera replica a quel che dicevo io nei commenti precedenti.
È, appunto, una chiacchierata.
Non vedo il potere come male assoluto.
Né penso che sia osceno che esista chi può prendere decisioni che influenzano il mio lavoro.
Dico che non mi vedo nel ruolo di quella che influenza le decisioni sul merito altrui.
E credo che l’assenza di fairness sia connaturata all’essenza stessa del merito, proprio perché si tratta di un concetto negoziale e non assoluto.
Può essere che episodicamente si concordi con la ratio di una scelta asseritamente meritocratica; ma se accade, ciò non significa che la scelta sia necessariamente equa e fair; significa solamente che viene incontro alla nostra idea di fairness.
A me basta saperlo.
Non è che voglio far saltare il tavolo.
Grazie della chiacchierata anche a te.