l’ira, la tigre e le storie

Mmh.
Ho mentito. Senza saperlo.
Io uno di quei due scrittori lo conoscevo.
È John Lynch, ed è un attore. L’ho visto in uno dei film che preferisco, «Nel nome del padre».

Ho il suo (secondo) libro, adesso. Autografato.
La madre è molisana, mi ha detto.
Per il sonno, non ho avuto la prontezza di chiedergli che cazzo ci faceva una molisana in Ulster. Sarebbe stato interessante saperlo.

Lui è cresciuto in Ulster. Ha raccontato di avere fin da piccolo radunato un vastissimo repertorio dei modi in cui si può morire.
Uno moriva strangolato, pugnalato, «sparato»…
Ha smesso di bere qualche tempo fa, ha raccontato, e allora ha cominciato a scrivere.
Lui l’ha detto meglio. Come lo scrivo io sembra una presa per il culo.

L’altro, un giovinotto biondo-rossiccio che aveva lasciato la mascella a casa o chissà dove, è Paul Murray.
Ho preso anche il suo libro, e ho anche il suo autografo.
È la storia di un quattordicenne, e a quanto pare ha a che vedere anche con la caduta della cosiddetta Celtic Tiger, ovvero il crollo economico della Tigre celtica, l’Irlanda.

Mi colpisce che lo scrivere sia stato prevalentemente definito, nell’incontro a cui ho assistito, come «storytelling», ovvero l’atto di raccontare storie.
A nessuno dei due scrittori né al tipo molto spiritoso che faceva le domande è venuto in mente di pensare che scrivere consista in un’azione differente da quella del raccontare.

Tutt’e due sono piuttosto famosi, da queste parti. Lynch lo è per un tipo di persona differente da quella che si appassiona a Murray, credo; ma entrambi sono famosi.
La sensazione che ho avuto è che nessuno dei due si presentasse come un personaggio.
Io non so se questa mia sensazione dipenda dal fatto che gli indicatori-base dell’attitudine di una persona sono differenti da luogo a luogo, da cultura a cultura.

Certo: Murray aveva un’aria da trentenne sapientino; ma è la stessa aria che avrebbe il primo della classe, e non il talento emergente della letteratura.
Niente di troppo simpatico lo stesso, ma la differenza c’è.
E dopo aver letto il suo (secondo) libro mi riservo comunque di cambiare idea.

Da queste parti – ho appreso – la prima cosa da fare, se sei uno che vuole pubblicare un libro, è trovarti un agente.
In Italia, mi pare di capire, l’agente ti si fila solo se hai pubblicato qualcosa che qualcun altro di importantino si è filato, e se qualcuno ti presenta.
Forse sbaglio, e neanche so se avere un agente è bene o male in sé.
In fondo, mi sa che non è nemmeno importante.

Sono a un tavolino di «The Queen of Tarts». Vedendomi così impegnata alla tastiera, sono così rispettosi verso la mia attività intellettuale, che percepiscono evidentemente faticosa, che non sono nemmeno venuti a chiedere se voglio qualcosa, e son qua da un po’.

Di fianco a me due donne sussurrano.
Vorrei dir loro che sono italiana e non capisco un cazzo, e dunque possono dire quel che vogliono, ché tanto non capisco. Ma in realtà non è del tutto vero.
Si confidano cose di uomini. Una delle due è serissima e triste, ha gli occhi lucidi. «E io allora gli ho detto che mai nella mia vita…». L’altra ascolta attentamente, la guarda negli occhi e tace. Ogni tanto dice tre sillabe.

Nel frattempo il cielo si è ingrigito.