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l’esilio dal mondo dei piccoli
Oggi per mio figlio è stato l’ultimo giorno di scuola delle elementari.
Immagino cosa debba essere stata l’intera mattinata: combattuto fra la gioia di sapersi certificato come un grandicello, l’angoscia di non sentirsi pronto, il dolore di lasciare i compagni e le maestre, l’ansia e la sorpresa di scoprirsi improvvisamente e in via definitiva privato a tradimento di un pezzo così importante dell’identità – scolaro delle elementari – senza che nessun «organismo sociale» dotato di autorità abbia ancora reso disponibile una minima identità di ripiego.
Io non c’ero, e questo non mi fa sentire né bene né fiera di me; però so che lui, come molti altri compagni, ha pianto, ed è arrivato perfino a ipotizzare la soluzione di una bocciatura collettiva.
Beh. Ho pianto un po’ anch’io.
Ho rivissuto il senso di esilio, di estromissione, che ho provato ad ogni cambio di status della mia vita, accompagnato dall’eccitazione per un percorso nuovo.
Alle elementari, poi, si entra con una concezione del tempo larghissima, vicina all’eternità. Un anno è per sempre; figuriamoci cinque.
E invece finiscono.
E invece cresci.
E invece non puoi più tornare in quella classe con quei compagni, perché sei diventato grande, e questo ti fa anche piacere ma ti proietta nella dimensione del cambiamento e quindi ti mette in crisi perché vorresti resistere, continuare ad essere piccolo.
Così come, da genitore, vorresti rimanere il genitore di uno scolaro, e non di uno studente. È anche – eccome – una sfida all’identità di una madre e di un padre, credo.
Se leggi il post da casa, Giovanni, un abbraccio speciale per te.
È vero che sei grande, ma sei piccolo.
Sei un piccolo grande.
E gli occhi di mamma e papà vedono in te anche il neonato che sei stato. Perfino l’ecografia, vedono, sovrapposta ai tuoi lineamenti di adesso.
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